By Silvia Zanella (University of Florence)
Recently extended until January 9, 2013, the exhibit, The New Frontier, is currently on display at the Palazzo Pitti. Already brought to light by the title, the main problem with the perception of the history and culture of the Native American peoples is that, in the 21st century, these aspects seem practically unknown and, therefore, new. For the 500th anniversary of the death of Amerigo Vespucci, from whom the continent derives its name, the city of Florence has organized an exhibition with the good intentions to recover and revive the history of this culture, erased in large part by colonizers. This has been accomplished through the display of works from the collections of the Gilcrease Museum in Tulsa, Oklahoma, the state with the highest number of Native American citizens.
The exhibit is developed into two sections, one being historical and the other anthropological. This division is clear, as the sections are found in two distinct locations (the first in the Andito degli Angiolini, the second in the Costume Gallery on the upper floor) and as the colors chosen for the walls are light green and red, respectively. In the first area, the works feel very crowded, also because the space itself is small, while the second is grander and more pleasant, as one passes through its ample successive rooms. The lighting is well executed in both spaces, even though, in the Andito degli Angiolini, it reflects off the green walls to soothe the vision, while in the Costume Gallery it is more aggressive.
The historical aspect is presented through romantic landscape paintings (such as those by William Robinson Leigh and Joseph Henry Sharp) and photographs of Natives on horseback or in their homes with everyday objects, illustrating the various geographical areas in which they were settled (Plains and Prairies, Arctic, Eastern, and Northwest Coast), but inevitably reinforcing the stereotypical view of the “Indian” as portrayed in old Western films. Though the intent is respectable, instead of offering a more didactic and insightful presentation, they have chosen to reduce the content in the explanatory panels and to count solely on the artworks. Without doubt, they are aesthetically pleasing; however, they unfortunately repeat the story of the “noble savage,” reasserting the idea of a virtually extinct civilization.
The second section – which one enters after having climbed the stairs and weaved through a maze of hallways – employs a red color in tune with the red carpet used throughout the rest of the museum. Here, one gets the impression of truly entering the world of the indigenous culture. Each room presents an aspect of this life: weapons and horse trappings, battle headdresses, bison hunting, campsites and homes, clothing, games, and dances. Certainly, this area is more interesting and shows perhaps lesser-known objects, such as cradle boards for carrying infants on one’s back, moccasins decorated with beads, and fabric dolls dressed in Native clothing, corresponding to the European equivalent. This allows one to reflect on the connections with a culture that has been so mistreated by the white man. The two cultures are more similar than is let on by the display which, instead of proposing relationships in clothing, accessories, or shoes, presents examples of Native and European life in separate rooms to underline their differences. This division, on the one hand, allows the visitor to make connections between items such as European dresses decorated with Swarovski jewels and the colored beads of Native Americans, while, on the other hand, it can be seen as a flaw. The path of the exhibit is frequently interrupted by rooms in the Costume Gallery housing its permanent collection. This leaves the visitor perplexed, who may wonder if there is any connection at all between the Native objects that have just been seen and this Western clothing. If one is captivated by these creations of high fashion, it is possible to forget the exhibit he or she is visiting and reenter, somewhat surprised, into a room with feathers, beads, and horses.
Aside from these criticisms, it is encouraging to see exhibits such as this that attempt to tell the story of a culture and to break the stereotypes that we are all victims of, whether we like it or not.
La Nuova Frontiera. Storia e cultura d’America dalle collezioni del Gilcrease Museum
di Silvia Zanella (Università di Firenze)
Prorogata fino al 9 gennaio 2013, si tiene da luglio presso Palazzo Pitti a Firenze la mostra La Nuova Frontiera. Già il titolo mette in luce il problema principale legato alla ricezione della storia e della cultura dei popoli nativi d’America: nel XXI secolo questi aspetti risultano a noi praticamente sconosciuti e quindi nuovi.
Cogliendo l’occasione del cinquecentenario dalla morte di Amerigo Vespucci, colui a cui si deve il nome del continente, Firenze organizza una mostra col nobile intento di recuperare e rivivere la storia di questa cultura cancellata in gran parte dai colonizzatori, attraverso l’esposizione di opere provenienti dalle collezioni del Gilcrease Museum di Tulsa che si trova in Oklahoma, lo stato americano con più nativi tuttora abitanti.
L’esposizione si articola in due parti, una dal taglio storico, l’altra legata all’ambito antropologico. La suddivisione appare chiara sia perché le sezioni si trovano in due luoghi distinti (la prima nell’Andito degli Angiolini, la seconda nella Galleria del Costume al piano superiore) sia per il colore diverso che è stato scelto per le pareti, rispettivamente verde chiaro e rosso. La prima risulta più affollata di opere per via degli spazi che fisicamente sono piccoli, la seconda è sicuramente più piacevole per il largo respiro degli ambienti che si succedono uno dietro l’altro. L’illuminazione è buona in entrambe le sezioni; sebbene quella dell’Andito degli Angiolini, riflettendo sulle pareti verdi, risulti più riposante per la vista, mentre quella della Galleria del Costume è più aggressiva.
L’aspetto storico è presentato attraverso quadri romantici con vedute di paesaggi incontaminati (come, per esempio, le opere di William Robinson Leigh e Joseph Henry Sharp), fotografie con indigeni a cavallo o nelle loro tende e oggetti di vita quotidiana che hanno lo scopo di illustrare le varie aree geografiche in cui i nativi erano insediati (Pianure e Praterie, Artide, Est, Costa Nord), ma che finiscono inevitabilmente per riconfermare la visione stereotipata dell’indiano come ci viene proposta dai film western. L’intento è sicuramente da apprezzare, perché, invece che offrire una presentazione maggiormente didascalica e approfondita, si è preferito ridurre i contenuti dei pannelli esplicativi e puntare sulle opere. Esse senza dubbio sono suggestive, anche se ancora una volta esprimono il dramma della scomparsa, cioè ribadiscono l’idea comune di una civiltà praticamente estinta.
La seconda sezione, a cui si accede dopo aver salito le scale e attraversato una gincana di corridoi, si apre all’insegna del colore rosso che si intona a quello del tappeto delle sale del resto del museo. L’impressione è quella di entrare nel vivo della cultura indigena. Ogni sala ne presenta un aspetto: le armi, gli accessori di protezione del cavallo, i copricapi da battaglia, la caccia al bisonte, le tende-tepee, gli abiti, i giocattoli, la danza. Sicuramente questa parte è più interessante e ci mostra oggetti pressoché sconosciuti, come le culle per portare i neonati in spalla (per noi più simili a delle slitte), i mocassini decorati con le perline e le bambole di pezza abbigliate all’indiana, corrispettivo delle nostre vestite all’europea. Ecco, questo fa riflettere sui punti di contatto che esistono con una cultura tanto bistrattata dall’uomo bianco. Le due culture si somigliano più di quanto sia lasciato intendere da questo allestimento che, invece di proporre confronti di abiti, accessori e scarpe, presenta esempi indigeni ed europei in sale distinte in modo da sottolinearne la differenza. Tale separazione, se da un lato stimola il visitatore a creare dei collegamenti, ad esempio tra la decorazione in swarovski sui vestiti europei e quella di perline colorate dei nativi, dall’altro rappresenta un neo del percorso espositivo. Esso, infatti, viene interrotto dalle sale della Galleria del Costume che ospita la sua collezione permanente. Tutto ciò lascia perplesso il visitatore, che potrebbe domandarsi se esista un qualche nesso con ciò che ha visto fino a qualche istante prima e questi abiti occidentali. Egli poi, se catturato da queste creazioni di alta moda, si dimentica della mostra che stava visitando e ritorna, quasi sorpreso, in sale con piume, tende e cavalli.
Al di là di queste critiche, è buona cosa che si promuovano iniziative di recupero delle culture che possono sfatare gli stereotipi di cui tutti noi siamo vittima, volenti o nolenti.