Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento. Lana, seta, pittura

Galleria dell’Accademia

5 dicembre 2017 – 18 marzo 2018

Di Simona Anna Vespari (Università degli Studi di Firenze)

 

Tessuto e ricchezza a Firenze nel Trecento. Lana, seta, pittura. E’ questo il titolo della mostra che si è aperta il 5 dicembre scorso e avrà luogo fino al 18 marzo 2018 nelle sale della Galleria dell’Accademia, a cura della direttrice del museo Cecilia Hollberg. Si tratta di un evento molto interessante, non comune, che si concentra principalmente sull’importanza dell’arte tessile a Firenze, analizzata sia da un punto di vista economico che nel campo della produzione artistica. Può essere considerata un viaggio attraverso la storia dei tessuti tra la fine del Duecento e per tutto il Trecento, in particolare a Firenze, periodo in cui la città divenne un luogo fondamentale negli scambi commerciali.

Il visitatore entrando dalla Galleria dell’Accademia si ritrova in un ambiente governato dalla semioscurità, effetto che da maggiore intimità al luogo e soluzione che fa risaltare come assoluti protagonisti i tessuti, ben illuminati, e quindi al centro dell’attenzione.

La mostra si apre con uno sguardo al contesto storico nel quale quest’arte comincia a svilupparsi: all’interno di teche, si trovano nella prima sala testimonianze dell’Arte della Lana, corporazione importantissima a Firenze, presente attraverso l’esposizione di sigilli, statuti, pagamenti che rendono chiara la sua attività.  A dare il benvenuto al visitatore è il piccolo vestitino in lana, prestato dal National Museum di Copenhagen, confezionato alla metà del XIV secolo per una bimba e recuperato in Groenlandia dagli archeologi: l’opera, posta in una teca di vetro, direttamente in corrispondenza dell’entrata principale documenta come il concetto di moda comincia a svilupparsi già da quest’epoca.

Giusta la scelta in questa prima sala di posizionare, vicino all’ingresso e prima dell’inizio della visita, un punto in cui sono stati collocati quattro tipi di stoffe offrendo al visitatore anche un’esperienza tattile, importante visto l’argomento su cui verte l’esposizione.

La mostra segue un percorso cronologico e si compone di varie sezioni, in ognuna delle quali ci si concentra su un tipo diverso di decorazione; si parte così con la prima sezione dedicata alle Geometrie mediterranee: insieme a pezzi di tessuto dalla fantasia che richiamano il mondo islamico, ci troviamo di fronte alle due opere più antiche di tutta la mostra che appartengono ancora alla fine del ‘200. Si tratta della Madonna di San Remigio, proveniente appunto dalla chiesa da cui prende il nome e la grande Croce di fine Duecento, appartenente alla Galleria dell’Accademia e restaurata per questa occasione, dominante in posizione centrale: in quest’ultima opera colpisce particolarmente il tessuto decorato a motivi geometrici del tabellone centrale, testimonianza dello splendore – in gran parte perduto – delle opere che ornavano le chiese in questo periodo.

In ogni sezione è esposta quindi almeno un’opera pittorica in cui si ripropone la decorazione del tessuto in esame: questa scelta è interessante e porta il visitatore a guardare l’opera con occhi nuovi, probabilmente in un modo diverso da quello abituale, ricercando il dettaglio decorativo della stoffa in un continuo confronto tra tessuti reali e dipinti.

Il blu è il colore che fa da filo conduttore per l’intera esposizione: si è scelto infatti di utilizzare questa tinta per le pareti, in stretto richiamo ai tessuti esposti con tanto di decorazioni con animali e simboli, così come blu è tutto il materiale didattico presente. Le didascalie sono molto chiare, poste vicino all’opera e ben visibili mentre i pannelli esplicativi scritti in doppia lingua, uno per ogni sala, forse risultano troppo brevi per il visitatore che si approccia per la prima volta con questo argomento, facendo comprendere maggiormente il contesto che ruota attorno alle opere esposte ma non riuscendo a creare un vero e proprio percorso lineare.

Al termine del percorso troviamo la sezione dedicata ai velluti ed anche, in posizione d’onore a salutare il visitatore in questo suo viaggio nel mondo dei tessuti due e trecenteschi,  il bellissimo piviale conservato al Museo del Bargello che documenta la sfarzosità e la ricchezza e l’importanza raggiunta dalla città di Firenze in questo campo nel corso del Quattrocento.

 

Weave and wealth in Florence in the Fourteenth Century
Wool, silk, painting

Accademia Gallery
5 December 2017 – 18 March 2018

 

By Simona Anna Vespari (University of Florence)

 

Weave and wealth in Florence in the fourteenth century. Wool, silk, painting. This is the title of the exhibition that opened on December 5, 2017, and will take place until March 18, 2018, in the halls of the Galleria dell’Accademia, by the director of the museum, Cecilia Hollberg. It is a very interesting, uncommon event that focuses mainly on the importance of textile art in Florence, analyzed both from an economic point of view and in the field of artistic production. It can be considered a journey through the history of fabrics between the end of the thirteenth century and throughout the fourteenth century, especially in Florence, a period when the city became a fundamental place in trade.

The visitor entering the Accademia Gallery finds themselves in an environment controlled by semi-darkness, an effect that gives greater intimacy to the place and solution that brings out the absolute protagonists of the well-lit fabrics, and therefore the center of attention.

The exhibition opens with a look at the historical context in which this type of art begins to develop. Inside the showcases, in the first room there are testimonies of the Wool Guild, a very important guild in Florence, present through the display of seals, statutes, payments that make the activity clear. To welcome the visitor is a small wool dress, lent by the National Museum of Copenhagen, made in the mid-fourteenth century for a child and recovered in Greenland by archaeologists. The work, placed in a glass case, directly in the main entrance documents how the concept of fashion begins to develop already from this era.

In the first room near the entrance right before the start of the exhibition there is a information point where four types of fabrics are placed offering the visitor a tactile experience, which is important considering the nature of the objects on display.

The exhibition follows a chronological path and consists of various sections, each of which focuses on a different type of decoration.  It starts with the first section dedicated to Mediterranean Geometries: together with pieces of fabric with a fantasy that recall the Islamic world, the visitor is faced with the two oldest works of the entire exhibition belonging to the end of the 13th century. The Madonna of San Remigio, coming from the church from which it takes its name and the great cross from the late thirteenth century, belonging to the Accademia Gallery and restored for this occasion, which is places in a dominant in central position: in this last work particularly striking fabric decorated with geometric motifs on the central board, testimony to the splendor, largely lost, of the works that once adorned the churches in this period.

In each section, at least one pictorial work is exhibited in which the decoration of the fabric under examination is proposed, this choice is interesting and leads the visitor to look at the work with new eyes and in a different way from the usual one, looking for the decorative detail of the fabric in a continuous comparison between real fabrics and paintings.

Blue is the color that acts as a guiding thread for the entire exhibition. In fact, they chose to use this color for the walls, in strict reference to the fabrics displayed with lots of decorations with animals and symbols, just as blue is all the material didactic present. The captions are placed close to the work and clearly visible while the explanatory panels written in two languages, one for each room, are perhaps too short for the visitor who approaches for the first time with this topic, making it easier to understand the context that revolves around the exhibited works but failing to create a real linear path.

At the end of the path we find the section dedicated to velvets and also, in a position of honor to greet the visitor on his journey through the world of twentieth and fourteenth century fabrics, the beautiful piviale preserved in the Bargello Museum which documents the lavish and the richness and the importance reached by the city of Florence in this field during the fifteenth century.

 

1927. Il ritorno in Italia. Salvatore Ferragamo e la cultura visiva del Novecento

19 Maggio 2017 – 2 Maggio 2018
Museo Salvatore Ferragamo, Palazzo Spini Feroni  

 

Di Costanza Peruzzi (Università degli Studi di Firenze)

 

La mostra in corso al Museo Salvatore Ferragamo, ideata dalla direttrice Stefania Ricci e curata da Carlo Sisi, è stata inaugurata lo scorso maggio 2017, in occasione del novantesimo anniversario del rientro dello stilista in Italia, dopo un viaggio di formazione in America durato più di un decennio.

Il Museo Ferragamo nacque nel 1995 per volere della moglie e dei figli dello stilista per far conoscere al pubblico la storia del fondatore del marchio e le sue creazioni, esempi di alto artigianato, considerate vere e proprie opere d’arte. Ma fin dal suo nascere, il Museo e le mostre temporanee organizzate al suo interno, hanno avuto anche un altro obiettivo, ovvero raccontare al pubblico lo stretto rapporto tra l’arte dello stilista e la cultura artistica del suo tempo.

A conferma di questo impegno culturale, nel 1999 il Museo Ferragamo ha ottenuto l’ambito “Premio Guggenheim Impresa e Cultura” (dal 2002 “Premio Impresa-Cultura”), che la collezione veneziana conferiva ogni anno alle aziende che meglio avevano investito in campo culturale.

Il crescente successo del Museo fece si che, a undici anni dalla sua inaugurazione, lo spazio espositivo venisse spostato dal secondo piano del Palazzo Spini-Feroni, al suo basamento, ornato da pilastri e volte a crocera che ne testimoniano l’origine medievale.

Lo spazio ampio del basamento, quasi ad aula unica, in passato ha reso talvolta difficile seguire il percorso espositivo pensato dai curatori, ma per quanto rigurda la mostra in questione il problema è stato eccellentemente risolto da Maurizio Balò, l’architetto che ha curato curato la scenografia dell’allestimento, ispirata agli interni di un ideale transatlantico, a ricordo dei viaggi per mare che portarono Ferragamo prima in America e poi in Italia.

E la metafora del viaggio diventa per il curatore Carlo Sisi, il fil rouge di tutta l’esposizione. Un viaggio mentale che Ferragamo compie nella cultura visiva dell’Italia degli anni Venti, che di fatto è la vera protagonista di questa mostra.

Suddivisa in otto sale, titolate e accuratamente descritte in pannelli introduttivi in italiano e in inglese, la mostra-viaggio parte proprio da video, oggetti e fotografie testimonianze dirette di quei viaggi in transatlantico di inizio secolo. Nella seconda sala si approda a Firenze e la si vede attraverso gli occhi di Ferragamo stesso, grazie ad un raro filmato che il “calzolaio delle stelle” (come era chiamato ad Hollywood) girò appena giunto in città, e attraverso gli occhi e il pennello dei pittori che in quegli anni vivevano in città, da Colacicchi, a Ferroni, a Baldwin, a Piombati Ammannati, a Rosai.

Si passa poi alle sale, forse le più empblematiche della mostra, dedicate alle arti decorative, dalla loro rinascita a partire dal rilancio del folklore e del regionalismo (Zecchin, Cambellotti), fino ad arrivare a quelle opere che hanno fatto la storia del concetto stesso di “Made in Italy”: Gio Ponti, Guido Balsamo Stella, Carlo Scarpa, Cantagalli, Lisio, Innocenti e Prosperi, Thayaht.

Interessante la sala dedicata alla figura della donna emancipata degli anni Venti, allestita nel corridoio di passaggio tra le due sale appena descritte. Una piccola parentesi che però rende bene l’idea della clientela che Ferragamo doveva soddisfare. La fisicità e il culto del corpo sono i protagonisti anche delle ultime due sale, visti da due diversi punti di vista: dal punto di vista più tecnico-scientifico nella penultima, in cui è possibile vedere attraverso testimonianze dirette, indumenti, fotografia, articoli di giornale e pubblicità, il crescente rigore scientifico che iniziava a invadere il mondo della moda, dalla disciplina tecnica, alla standardizzazione, all’imminente sviluppo delle taglie. Nell’ultima sala il culto del corpo, inteso come strumento estetico del dinamismo, è affidato alle testimonianze artistiche, pittoriche e scultoree.

Un percorso chiaro e completo che lascia al visitatore un’idea precisa della cultura che tanto affascinò e condizionò l’opera di questo intraprendente imprenditore e artista italiano, famoso già all’epoca anche dall’altra parte del mondo.

Piacevole, e più che altro importante per quanto rigurda l’impegno ammirabile della direzione nel coinvolgere anche giovani studiosi, la video installazione dedicata alla “Casa italiana” realizzata da studenti dell’Università di Firenze.

 

1927. The return to Italy. Salvatore Ferragamo
and the visual culture of the Twentieth Century

    

Salvatore Ferragamo Museum, Palazzo Spini Feroni
19 May 2017 – 2 May 2018
 

By Costanza Peruzzi (University of Florence)

 

La mostra “Made in New York. Keith Haring, (Subway drawings) Paolo Buggiani and co. La vera origine della Street Art” è stata inaugurata il 26 Ottobre 2017 e sarà ancora visitabile fino al 4 Febbraio 2018, presso le sale di Palazzo Medici Riccardi.

The exhibition at the Salvatore Ferragamo Museum, conceived by the director Stefania Ricci and curated by Carlo Sisi, was inaugurated last May 2017, on the occasion of the ninetieth anniversary of the return of the designer Salvatore Ferragamo, in Italy, after a training trip to America that lasted longer than a decade.

The Ferragamo Museum was founded in 1995 at the behest of the designer’s wife and children to let the public know the story of the founder of the brand and its creation as well as to show examples of high craftsmanship, considered to be true works of art. However, since its inception, the museum and the temporary exhibitions organized within it, have also had another goal, namely to tell the public the close relationship between the art of the designer and the artistic culture of his time.
In confirmation of this cultural commitment, in 1999 the Ferragamo Museum obtained the “Guggenheim Enterprise and Culture Award” (from 2002 “Impresa-Cultura Award”), which the Venetian group gives each year to the companies that have invested best in the field cultural.

The increasing success of the museum meant that, eleven years after its opening, the exhibition space was moved from the second floor of Palazzo Spini-Feroni, to its basement, adorned with pillars and cross-vaults which bare witness to its medieval origins.
The ample space of the basement, almost like a single hall, has made it difficult in the past to follow the exhibition path designed by the curators, but in regards the exhibition in question the problem was excellently solved by Maurizio Balò, the architect who designed the set of this exhibition. Balò was inspired by the interiors of a transatlantic ideal, in memory of the sea voyages that first brought Ferragamo to America and then to Italy.

The metaphor of the journey becomes for the curator Carlo Sisi, common thread of the entire exhibition. A mental journey that Ferragamo makes in the visual culture of Italy in the Twenties, which in fact is the true protagonist of this exhibition.
Divided into eight rooms, titled and accurately described in introductory panels in Italian and English, the exhibition-journey starts from videos, objects and photographs, direct evidence of those journeys in transatlantic of the beginning of the century. In the second room you arrive in Florence and you see it through the eyes of Ferragamo himself, thanks to a rare film that the “shoemaker of the stars” as he was called in Hollywood, as soon as he arrived in the city. In addition the visitor see it through the eyes and the brush of the painters who around the same time lived in the city, from Colacicchi, to Ferroni, to Baldwin, to Piombati Ammannati, to Rosai.

Then the visitor moves on to the halls, perhaps the most symbolic of the exhibition, dedicated to the decorative arts, from their rebirth starting from the revival of folklore and regionalism (Zecchin, Cambellotti), up to those works that have made the history of the concept of “Made in Italy” by the likes of Gio Ponti, Guido Balsamo Stella, Carlo Scarpa, Cantagalli, Lisio, Innocenti and Prosperi, Thayaht.

Interesting the room dedicated to the figure of the liberated woman of the twenties, set up in the passage corridor between the two rooms just described. A small interlude, which nonetheless gives a good idea of the clientele that, Ferragamo had to satisfy. The physicality and the cult of the body are also the protagonists of the last two rooms, examined from two different points of view: from the technical-scientific point of view in the second to last, where, through direct testimonies, clothing, photographs, newspaper articles and advertising, you can see the growing scientific rigor that began to invade the world of fashion, from technical discipline, to standardization, to the imminent development of sizes. In the last room the cult of the body, intended as an aesthetic instrument of dynamism, is entrusted to artistic, pictorial and sculptural testimonies.

A clear and complete path that gives the visitor a precise idea of the culture that so fascinated and influenced the work of this enterprising entrepreneur and Italian artist, already famous at the time also on the other side of the world.
Pleasant, and above all important as regards the admirable commitment of the management in involving young scholars, the video installation dedicated to the “Italian House” made by students of the University of Florence.

 

Made in New York. Keith Haring, Paolo Buggiani and Co.

Subway Drawings

26 October 2017 – 4 February 2018
Palazzo Medici Riccardi 

By Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)
 
On display from 26 October 2017 to 4 February 2018 at the Palazzo Medici Riccardi is the Made in New York: Keith Haring (Subway Drawings), Paolo Buggiani and co.  As noted by the title the exhibition features over 20 murals American street artist Keith Haring and Italian social activist Paolo Buggiani as well as the works of some of their contemporary street friends, Richard Hambleton, Ken Hiratsuka, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Les Levine and David Salle.

The exhibition starts with the subway chalk drawing of Keith Haring that he created in the 1970s. These are the works he is the best known for and linked to the beginning of his artistic career. Haring is said to have completed more than 5,000 of these types of works, sketching whenever he saw a black paper in the New York City subway.  Because of the nature of his drawings many of them were covered up by advertisements, however, some of them were spared collected and are on view in private collections as well as museums. The works on display in this exhibition were rescued from being replaced with advertisements by Buggiani himself during his time in New York.  The room also contains multiple introductory wall texts, to both the concept of ‘graffiti art’ and the artists themselves.  The texts are in both Italian and English and give a comprehensive overview without overwhelming the visitor with too much information. While the works in this room are impressive and brightly lit in a dim room (which adds to the overall ambiance of the room), it is hard to imagine what these works would have looked like in their original context. Here in the Palazzo Medici Riccardi the works are cut to the shape of a large square and covered in glass to protect them. While this protects the works and makes them uniformly presentable, it decontextualizes the works. These works were originally intended to be seen in the subway at a passing glance, not glanced upon in the confines of a museum. This is an issue that is not only relevant to the exhibition here at the Palazzo Medici Riccardi but to all exhibitions involving street art.

Despite the idea of the displacement of the works from their original context within exhibition has a well thought out and clear path. Each room is labeled as stops (e.g. first stop, second stop), this is a particularly clever wordplay as the exhibition deals with subway and street art. Each one of these stops is clearly labeled with an introductory text (in English and Italian) letting the viewer know what they can expect in the room. The wall texts are very helpful in guiding the viewer and connecting the rooms. As some viewers might have a limited knowledge on this type of lesser-known style of art, the texts really help to connect what the curator wanted to the visitor to get from the experience.

The second stop, for example, is labeled Keith Haring: Antagonism of Color and introduces two of his works where he shifts from the white chalk on black to colorful lines and designs on other urban surfaces.  The introductory text makes the connection that while these works introduce colors and alternative surfaces; they are very much connected to his black chalk works that the visitors just viewed. The third stop is dedicated to Paolo Buggiani and his street art.  While of the two artists Haring is the better-recognized name, the work by Buggiani is impressive in its own right. The works of Buggiani are visually different in that they are photographs but they contain a layer of expressive colorful lines that can be connected to the works of Haring seen in the previous room.

The fourth room incorporates and displays the work of a few of the street companions or as they were better known the Friends of The Street…Art, who were working around the same time as Haring and Buggiani.  On display are works by Richard Hambleton, Ken Hiratsuka. David Finn and Les Levine. Particularly noteworthy are the works by Barbara Kruger and David Salle who tackles some of the underlying social issues, like the works of Haring and Buggiani, but in a bold in your face manner, using text to convey and color to convey their messages.

The last few rooms contain a variety of material including posters, photographs, and videos that document the development of street art, with a particular focus on New York. All of these artists (including Buggiani) have a strong connection to New York and to street art. The final room is dedicated to the metal sculptures of Buggiani, which leave an impression on the viewer and they are hung from the ceiling and emerging from mirrors on the floor. You really feel that his sculptures are a part of the room. The room is connected by a video installation of Buggiani in which you can see some of the metal sculptures from the room. These sculptures are meant to amplify the contents of the exhibition. It is interesting that this exhibition is placed in a historic Renaissance building when the concept of street art and graffiti is a modern phenomenon. However, despite this, the works are presented in a fashion that allows the visitor to comprehend their significance and as a whole the exhibition flows well and leaves the visitor with a better knowledge of street art than when they came in.
 
Palazzo Medici Riccardi
via Cavour 3, Firenze
Open daily (closed Wednesday) from 9 am to 7 pm
Entrance: € 10 / € 6 reduced (Medici Palace museum included)

 

Made in New York. Keith Haring, Paolo Buggiani and co

La vera origine della Street Art


 
Traduzione di Costanza Peruzzi (Università degli Studi di Firenze)
 
La mostra “Made in New York. Keith Haring, (Subway drawings) Paolo Buggiani and co. La vera origine della Street Art” è stata inaugurata il 26 Ottobre 2017 e sarà ancora visitabile fino al 4 Febbraio 2018, presso le sale di Palazzo Medici Riccardi.

Come si evince dal titolo sono esposti in mostra più di venti murales dello street artist Keith Haring e dell’attivista sociale italiano Paolo Buggiani, oltre alle opere di alcuni street artists loro amico come Richard Hambleton, Ken Hiratsuka, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Les Levine e David Salle.
La mostra si apre con l’opera di Keith Haring, realizzata su gesso, in un sottopassaggio negli anni Settanta, l’opera più conosciuta tra i suoi primi lavori. Si ritiene che Haring abbia realizzato più di cinquemila lavori come questo, disegnando ovunque vedesse un foglio nero nei sottopassi di New York.
A causa della natura stessa dei suoi lavori, molti di questi furono di volta in volta coperti da manifesti pubblicitari, altri invece vennero risparmiati, staccati e collezionati ed è possibile ammirarli oggi in collezioni private e in musei.

Le opere esposte in questa mostra sono quelle salvate dall’occultamento dei manifesti per mano dello stesso Paolo Buggiani, durante il suo periodo a New York.
In sala i pannelli esplicativi, in doppia lingua (italiano-inglese), sono dedicati sia al concetto di graffiti art, sia alla storia degli artisti e forniscono al visitatore informazioni esaustive e non prolisse.
Nonostante l’impatto visivo delle opere sia impressionante, in quanto l’illuminazione è limitata a colpire solamente I lavori degli artisti, è tuttavia difficile immaginare quale fosse l’impatto originario di queste su un qualsiasi passante newyorkese.

In Palazzo Medici Riccardi le opere sono esposte in quadri coperti da vetri che ne garantiscono l’incolumità, ma al tempo stesso contribuiscono alla loro estraneazione dal contesto originario. Di fatto questo tipo di opere sono realizzate per essere osservate dallo sguardo veloce di passanti in metropolitana e non confinate in un museo e questo è un limite che non riguarda soltanto questa esposizione in particolare, ma tutte le espozioni di questo tipo che coinvolgono opere di questo tipo.

Nonostante questo smarrimento dovuto dalle decontestualizzazione delle opere, il percorso espositivo è ben pensato e chiaro per il visitatore. Ogni sala è etichettata come “stop” (es. “primo stop”, “secondo stop”), un gioco di parole che rimanda al mondo della segnaletica della strada, dei sottopassaggi e della street art. Ogni “stop” ha un’introduzione che aiuta il visitatore a comprendere cosa sta per vedere. I testi sono in questo senso molto utili e anche il visitatore più inesperto affronta la visita con una nuova consapevolezza e riesce a comprendere il messaggio che il curatore ha voluto lasciare.
Il secondo “stop” è intitolato Keith Haring: antagonista del colore e introduce due dei suoi lavori in cui passa dal gesso bianco su fondo nero alle linee colorate e progetti su altri tipi di superfici. I testi introduttivi di questa sezione mettono in connessione I lavori colorati con quelli su gesso bianchi appena passati.

Il terso “stop” è dedicato a Paolo Buggiani e la sua street art. Tra i due artisti, Keith è certo quello più conosciuto, cinonostante il lavoro di Buggiani è davvero impressionante. Sono lavori chiaramente diversi, quelli di Buggiani sono fotografie, ma contengono linee colorate che rimandano ai primi lavori di Haring, osservati nella prima sala.
La quarta sala è dedicata ale opere dei loro compagni, meglio conosciuti come “compagni di strada”, che lavoravano nello stesso periodo dei nostri protagonisti. Sono esposte opere di Richard Hambleton, Ken Hiratsuka, David Finn e Les Levine. Degni di nota son oi lavori di Barbara Kruger e David Salle che affrontano alcuni dei problemi che stavano, allora, alla base della società, come I lavori di Haring e di Buggiani, ma in modo diverso, usando testo e colore per comunicare il proprio messaggio.

Le ultime sale contengono materiale vario, posters, fotografie e video che documentano lo sviluppo della street art, con un focus particolare su New York. Tutti questi artisti infatti, incluso Baggiani, hanno avuto uno stretto rapporto con questa città. L’ultima sala è dedicata alle sculture metalliche di Baggiani che hanno un impatto forte sul visitatore: appese al soffitto o emergenti da specchi poggiati sul pavimento. Davvero si ha l’impressione che le sculture siano parte integrante della stanza. Queste opere, riprodotte anche attraverso video-installazioni, ampliano il contenuto della mostra.

Interessante questo tipo di proposta artistica, strettamente moderna, all’interno di un edificio del Rinascimento. Le opere sono comunque presentate in maniera accattivante e il visitatore riesce a comprendere il loro significato e l’intera mostra si fa piacevole e istruttiva.
 
Palazzo Medici Riccardi
via Cavour 3, Firenze
Orari di apertura: dalle 09.00 alle 19:00 (chiusa il mercoledì)
Biglietto: € 10 / € 6 ridotto (visita al Palazzo inclusa)
 
(photo courtesy of Nona Debenham)
 
 

Leopoldo de’ Medici. Principe dei collezionisti

6 novembre 2017 – 28 gennaio 2018
Palazzo Pitti, Tesoro dei Granduchi 

 
Di Caterina Zaru
 

Dal 6 novembre fino al 28 gennaio 2018, è visitabile presso il Tesoro dei Granduchi (ex Museo degli Argenti) di Palazzo Pitti la mostra Leopoldo de’ Medici principe dei collezionisti, curata da Valentina Conticelli, Riccardo Gennaioli e Maria Sframeli.

Nel quarto centenario della nascita di Leopoldo, le Gallerie degli Uffizi gli dedicano un’interessante ed affascinante esposizione, che presenti al pubblico le opere più significative e preziose della sua immensa collezione, in uno dei luoghi più affascinanti del Palazzo, che fu dimora della famiglia de’ Medici e di parte della loro collezione d’arte. Collezione alla quale, grazie anche all’eredità raccolta dal nipote di Leopoldo, Cosimo III, l’inarrestabile fame da collezionista propria del Cardinale, dette un notevole contributo e la trasformò radicalmente, ponendosi all’avanguardia nel panorama europeo per la vastità e la varietà delle opere raccolte.

Fin da subito lo spettatore si trova immerso in questo variegato mondo di ricchezze. Dagli affreschi, gli arazzi e le decorazioni scultoree delle stanze del Tesoro dei Granduchi, che fanno da cornice alla mostra; ai ritratti che immortalano Leopoldo nelle varie fasi della sua vita. Dai busti e sculture antichi, dalle medaglie, cammei, avori, capolavori di pietre dure lavorate, preziosi reliquiari, ritratti di piccolo e grande formato, autoritratti di grandi artisti, agli strumenti scientifici appartenuti a Galileo Galilei, alle rarità naturali e oggetti preziosi provenienti dall’Oriente e dai paesi del nuovo mondo, ai disegni e alle incisioni.

Un bellissimo percorso tra gli oggetti d’arte e preziosi dalle forme e qualità più disparate, scandito proprio in diverse sezioni tematiche in base alla tipologia delle opere esposte, ma che lascia, forse un po’ disorientato il visitatore. Ciò che non rende chiaramente piacevole la visita, è la mancanza di un apparato didascalico che accompagni con semplici ed immediate informazioni anche il visitatore meno esperto in materia: solo in alcune sale, in particolare le prime del percorso, sono presenti pannelli che descrivono la sezione di raccolta e la tipologia di opere esposte, oppure (prima sala) danno informazioni biografiche su Leopoldo de’ Medici. Inoltre, da notare che i pannelli identificativi del percorso di mostra, riconoscibili dal logo che contraddistingue l’esposizione stessa, sono accompagnati da altri pannelli che, invece, illustrano la storia del luogo e delle opere in esso racchiuse. Questi ultimi si trovano lungo tutto il percorso espositivo e anche nelle sale non propriamente dedicate alla mostra, entro supporti di plexiglas. Il problema sorge nel momento in cui, superate le prime sale, anche i pannelli della mostra si trovano entro la stessa tipologia di supporto, disorientando il visitatore, che non riesce più a capire, immediatamente, se si trova ancora all’interno del percorso di mostra o sta semplicemente visitando le sale del Tesoro dei Granduchi.

Inoltre nelle prime sale le opere sono accompagnate da didascalie con il logo identificativo che fa riferimento alla mostra, ma nel proseguo della mostra, le didascalie cambiano visivamente aspetto o mancano del tutto.

Infine, i colori dei materiali con cui sono stati rivestiti gli interni di alcune teche, le basi di opere scultoree e le pareti provvisorie a supporto dei dipinti, non appaiono uniformi: rosso bordeaux in certi casi, viola in altri, senza che lo spettatore sia messo in grado di capire il perché di tale scelta.

Una mostra nel complesso affascinante ed emozionante per ciò che espone e per quali intenti, ma a tratti caotica e non facilmente apprezzabile al pieno del suo potenziale. Peccato davvero che manchino nel percorso espositivo strumenti didattici e didascalici di alto livello, quale, invece, presenta il bel catalogo edito da Sillabe (forse non molto economico, ma la qualità giustifica il prezzo), che riunisce saggi, studi e tavole illustrative delle opere, accompagnate da testi scientifici di valore.

 
 

Leopoldo de’ Medici. Prince of collectors

Translated by Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)
 
From November 6th until January 28th, 2018, the Leopoldo de ‘Medici, the prince of collectors exhibition, can be visited at the Treasury of the Grand Dukes (the Museo degli Argenti) of Palazzo Pitti, curated by Valentina Conticelli, Riccardo Gennaioli and Maria Sframeli.

On the fourth centenary of Leopoldo’s birth, the Uffizi Galleries dedicate an interesting and fascinating exhibition to him, presenting the most significant and precious works of his immense collection to the public, in one of the most fascinating places of the Palazzo, which was not only the home of the de’ Medici but part of their art collection as well.  The collection to which, thanks to the inheritance collected by Leopoldo’s nephew, Cosimo III, gave a notable contribution and radically transformed it. Placing itself at the forefront of the European panorama for the vastness and variety of the collected works.

The spectator finds himself immersed in this diverse world of riches. From the frescoes, the tapestries and the sculptural decorations of the rooms in the treasure of the Grand Dukes, which frame the exhibition; to the portraits that immortalize Leopoldo in the various phases of his life. From antique busts and sculptures, from medals, cameos, ivories, masterpieces of hard worked stones, precious reliquaries, portraits of small and large format, self-portraits of great artists, to the scientific instruments that belonged to Galileo Galilei, a natural rarity and precious objects coming from the East and from the countries of the new world, to drawings and engravings.

The exhibition is well-planned course between the objects of art and precious shapes and different qualities and broken into different thematic sections based on the type of works on display, however, it leaves the visitor a bit disorientated. What does not make the visit clearly pleasant is the lack of a didactic material that accompanies the exhibition with text geared for the less experienced visitor containing only simple information. The text is only in some rooms; in particular, the beginning of the route, where there are panels that describe the section of collection and the type of exhibited works. The first room gives biographical information on Leopoldo de ‘Medici. Furthermore, it should be noted that other panels which identify the exhibition path, recognizable by the distinguishable logo, instead, illustrate the history of the place and the works enclosed within it. The latter can be found all along the exhibition path and also in the rooms not properly dedicated to the exhibition, within Plexiglas supports. The problem arises when, after the first few rooms, even the panels of the exhibition are within the same type of support, disorienting the visitor, who can no longer understand, immediately, if they are still within the path of the show or simply visiting the rooms of the Treasure of the Grand Dukes.

Moreover, in the first rooms the works are accompanied by captions with the identification logo that refers to the exhibition, but in the continuation of the exhibition, the captions change visually in appearance or are missing altogether.

Finally, the colors of the materials with which the interiors of some showcases were covered, the bases of sculptural works and the provisional walls supporting the paintings, do not appear uniform: bordeaux red in some cases, purple in others, without the viewer being made able to understand the reason for this choice.

An overall fascinating and exciting exhibition for what it exposes and for what intentions, but at times chaotic and not easily appreciable at the height of its potential. It’s a pity that there are no high-level didactic and didactic tools on the exhibition path, which, instead, presents the beautiful catalog published by Sillabe (perhaps not very cheap, but the quality justifies the price), which brings together essays, studies and illustrative tables of the works, accompanied by valuable scientific texts.

 

La Presentazione di Gesù al Tempio, di Anton Domenico Gabbiani

 

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28 ottobre 2017 – 7 gennaio 2018
Museo Civico di Pistoia 

 
Di Simona Anna Vespari (Università degli Studi di Firenze)
 
Si è aperta il 28 ottobre e resterà visibile al pubblico fino al 7 gennaio 2018 una delle mostre più importanti nell’ambito degli eventi culturali promossi da Pistoia capitale della cultura, dal titolo “Attorno all’opera: La Presentazione di Gesù al Tempio  di Anton Domenico Gabbiani”.

L’esposizione, curata da Riccardo Spinelli, è allestita al terzo e ultimo piano del palazzo trecentesco che ospita il bellissimo Museo Civico della città; all’interno dell’ampio salone in cui è fortemente rappresentata la pittura del Sei e Settecento fiorentino è stato ricavato uno spazio chiuso entro il quale si è cercato di ricreare un ambiente perduto. L’intento della mostra è subito chiaro: attraverso poche opere (sono solo quattro le tavole presenti) si intende ricostruire un ciclo narrativo che andava a decorare gli altari della Basilica di Santa Maria degli Angeli a Pistoia, importante luogo per l’arte della città nel XVIII secolo che vide attivi all’interno del proprio cantiere alcuni tra i maggiori artisti fiorentini del Settecento. L’evento costituisce una grande occasione non solo per vedere riunite queste pale d’altare ma anche per poter ammirare due bellissime opere, pressoché inedite, restaurate per l’occasione ed esposte per la prima volta al pubblico. Si tratta della bellissima Nascita della Vergine del fiorentino Alessandro Gherardini e dell’Annunciazione di Benedetto Luti, entrambe rimaste di proprietà delle monache e conservate nel monastero di clausura per lungo tempo. A completare il ciclo, due opere che fanno parte della collezione museale del Civico di Pistoia: la Presentazione di Gesù al Tempio di Anton Domenico Gabbiani, che dà il titolo alla mostra, e Il riposo durante la fuga in Egitto di Jacopo del Po. Il piccolo ambiente, molto intimo, permette quindi di goderne la bellezza in maniera ravvicinata ed apprezzarne così la fattura pittorica (splendida quella del Gherardini!), ma anche di confrontare i diversi linguaggi pittorici.

Anche la scelta di allestire questa mostra all’interno del salone è vincente in quanto il visitatore è stimolato alla visione delle opere seicentesche che circondano la piccola esposizione, ricreando un percorso cronologico. Dunque, una funzione didattica molto forte.

L’anticamera della mostra prepara il visitatore: in maniera semplice, attraverso pannelli didattici, vengono ripercorse le vicende secentesche del monastero di Santa Maria degli Angeli e della sua chiesa fino ad arrivare al grande cantiere di inizio Settecento, il tutto accompagnato da riproduzioni fotografiche che rendono più chiaro al visitatore la spiegazione.

La piccola mostra è arricchita da un apparato di materiali collegati al complesso pistoiese, in prestito da Archivio di Stato di Firenze, Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, che permettono di conoscere in maniera più approfondita la storia del complesso ecclesiastico e delle opere stesse: si tratta, ad esempio, di alcuni studi preparatori come quello della Presentazione di Gesù al Tempio di Gabbiani, molto interessante da vedere esposto vicino al dipinto. La fortuna critica del Gabbiani è rappresentata da un libro in cui compare la Vita dell’artista, scritta dal suo discepolo Ignazio Enrico Hugford esposto in una teca insieme ad un’incisione che riproduce la sua Presentazione al Tempio,  mentre in un’altra teca sono esposti vari pagamenti effettuati sia al Gabbiani che a Benedetto Luti. Infine, sulla parete, a fianco ad uno studio preparatorio del Gherardini, si trova un’incisione di Cornelis Cort raffigurante il Riposo durante la Fuga in Egitto, dimostrazione della fortuna iconografica dell’opera di Federico Barocci utilizzata come modello anche da Jacopo del Po.

L’evento risulta importante per il suo forte legame con il territorio: oltre alla ricostruzione di un contesto è stata l’occasione per riscoprire un periodo artistico, grazie all’apertura di alcuni ambienti non sempre accessibili, occasione di approfondimento sulle arti figurative a Pistoia nel Settecento.
 
 
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Translated by Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)
 

Opening on October 28, “Around the work: The Presentation of Jesus at the Temple of Anton Domenico Gabbiani ” will remain visible to the public until January 7, 2018, as one of the most important exhibitions in the cultural events promoted by Pistoia Capital of Culture.

The exhibition, curated by Riccardo Spinelli, located in the fourteenth-century building that houses the beautiful Civic Museum of the city, occupies the third and last floor. Within the large hall, which holds a large collection of seventeenth and eighteenth-century Florentine painting a closed space was created in attempt to recreate a lost environment. The intent of the exhibition is immediately clear, although there are only four panels present. The display reconstructs a narrative cycle that decorated the altars of the Basilica of Santa Maria degli Angeli in Pistoia. The basilica was an important place for the art of the city in the eighteenth century and saw some of the greatest Florentine artists of the eighteenth century active inside the church. The event is a great opportunity not only to see these altarpieces combined but also to admire two beautiful works, little known and restored for the occasion and exhibited for the first time to the public; the beautiful Birth of the Virgin by the Florentine Alessandro Gherardini and the Annunciation by Benedetto Luti, both of which belonged to the nuns and were kept in the monastery for a long time. To complete the cycle, are two works from the collection of the Civic of Pistoia: the Presentation of Jesus at the Temple of Anton by Domenico Gabbiani, which gives the title to the exhibition, and Rest during the flight to Egypt by Jacopo del Po. The Gallery space is small and very intimate; therefore it not only allows you to enjoy the beauty up close and really appreciate the pictorial workmanship (especially that of Gherardini!) but also to compare the different pictorial languages. The choice to set up this exhibition inside the salon is a success because the visitor is stimulated by the vision of the seventeenth-century works that surround the small exhibition, recreating a chronological path. It creates a very strong teaching function.

The antechamber of the exhibition prepares the visitor: in a simple way, through educational panels, the seventeenth-century events of the monastery of Santa Maria degli Angeli and of the church are traced to the large eighteenth-century construction site, all accompanied by photographic reproductions that make the explanation clearer to the visitor.

The small exhibition is enriched by materials connected to the Pistoia complex, on loan from the Florence State Archives, the Forteguerriana Library of Pistoia, the Central National Library of Florence and the Uffizi Gallery of Drawings and Prints, which allow a greater depth the history of the ecclesiastical complex and of the works themselves: these are, for example, some preparatory studies such as that of the Presentation of Jesus at the Temple of Gabbiani, very interesting to see exposed near the painting. The critical fortune of the Gabbiani is represented by a book in which appears the Life of the artist, written by his disciple Ignazio Enrico Hugford exposed in a case with an engraving that reproduces his Presentation in the Temple, while in another case they are various payments were made to both Gabbiani and Benedetto Luti. Finally, on the wall, next to a preparatory study by Gherardini, there is an engraving by Cornelis Cort depicting the Rest during the Fugue in Egypt, demonstration of the iconographic fortune of the work of Federico Barocci used as a model also by Jacopo del Po.

The event is important for its strong link with the territory: in addition to the reconstruction of a context, it was an opportunity to rediscover an artistic period, thanks to the opening of some environments not always accessible, an opportunity to study the visual arts in Pistoia in the eighteenth century.

 

Il Rinascimento giapponese agli Uffizi

La natura nei dipinti su paravento dal XV al XVII secolo

 

Rinascimento Giapponese

26 settembre 2017 – 7 gennaio 2018
Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Di Costanza Peruzzi (Università degli Studi di Firenze)

 

La Sala Magliabechiana della Galleria degli Uffizi ospita, dal 26 Settembre scorso fino al 07 Gennaio 2018, una mostra che celebra il 150° anniversario dell’amicizia tra l’Italia e il Giappone, la prima nel suo genere a livello europeo. Trentanove magnifici paraventi giapponesi, alcuni dei quali mai esposti al pubblico neppure in patria, sono ammirabili nel celebre museo fiorentino. Le opere, causa la loro estrema fragilità, non saranno esposte tutte e trentanove contemporaneamente, ma a gruppi di tredici per volta, a rotazione mensile.

Come si evince dal titolo della mostra, viene messa in scena l’epoca d’oro della pittura giapponese, dal XIV al XVII secolo, epoca che coincide fortunosamente con un periodo altrettanto felice per l’arte italiana, e fiorentina in particolare, quello convenzionalmente definito come “Rinascimento”, arrivando poi fino al Seicento.

Del tutto inusuale la scelta dei curatori di esporre in sala un unico pannello esplicativo in cui sono state riassunte tutte le notizie ritenute necessarie per comprendere quello che il visitatore sta per osservare: prima di tutto il motivo della mostra (la celebrazione dei 150 anni di relazioni diplomatiche bilaterali tra il nostro paese ed il Giappone); il tipo di opere in mostra (pitture di paesaggio e di natura); gli estremi temporali che segnano il periodo in cui queste delicate opere furono realizzate (dall’epoca Muromachi all’inizio dell’epoca Edo); le due tendenze artistiche a cui appartengono, ovvero la pittura “monocroma ed evocativa, fatta di vuoti essenziali e veloci” legata alla filosofia zen cinese ed alla società guerriera nonché tipica dei templi e delle residenze dei samurai, e la pittura più propriamente giapponese, caratterizzata da fondi oro e campiture di colore piatte, tipica delle residenze aristocratiche. Il pannello inoltre informa il visitatore che tutte le opere sono supportate dal classico formato del paravento o delle porte scorrevoli. E con queste nozioni la visita ha inizio.

L’esposizione occupa l’intera Aula e i pilasti al centro ne scandiscono lo spazio, ma il visitatore è quasi del tutto libero di muoversi senza seguire un percorso preciso, infatti solo l’inizio del percorso è indicato. Le uniche fonti di luce provengono dalle vetrine, ognuna delle quali accoglie una singola opera. Si crea quindi un ambiente intimo e contemplativo, che suscita l’impressione di trovarsi in un luogo sacro, come fossimo in uno di quei templi, sede originaria dei paraventi.

L’epoca, i materiali, la provenienza e una breve descrizione di ciò che è rappresentato sulla carta, e talvolta sulla seta, nonché lo stile di ogni paravento, compare nelle didascalie che corredano ogni vetrina.

Rimane però non chiarita la definizione di classico riferita al formato di queste opere. Al visitatore degli Uffizi, appena uscito da sale in cui i quadri (tavola, tela, cornice) dominano le pareti, potrebbe risultare non ovvia questa definizione. Magari una spiegazione in più circa la storia, l’utilizzo e la diffusione di questi paraventi e ciò che appunto li rende classici, sarebbe stata d’aiuto, poiché l’importanza di questi elementi d’arredo, sfruttati anche come supporto pittorico, è un dato piuttosto fondamentale per la comprensione della loro natura.

Solo il catalogo della mostra (ed. Giunti) riporta queste informazioni. I paraventi e le porte scorrevoli arrivarono in Giappone dalla Cina e dalla Corea e col tempo si consolidarono nella tipologia della coppia di paraventi a sei ante, normalmente posizionati a zig-zig e utilizzati per definire gli spazi interni dell’abitazione e allo stesso tempo per schermare il flusso d’aria proveniente dall’esterno. L’interno della tradizionale casa giapponese è infatti volutamente collegato all’ambiente esterno ed alla natura e a questo proposito Miyata Ryōhei, Commissario dell’Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone ha affermato: «questa rassegna offre al pubblico italiano la possibilità di ammirare lo splendore della cultura artistica giapponese e comprenderne la profonda sensibilità nei confronti della natura.»

La decorazione di paraventi e porte scorrevoli, in quanto elementi d’arredo di dimore domestiche, castelli e templi, divenne manifestazione del potere del loro proprietario e quindi oggetto di autorevoli committenze ai più famosi pittori, proprio come accadeva anche in Europa. Fu proprio grazie a queste dinamiche di committenze che l’arte giapponese, in quei secoli, arrivò a lambire la vetta più alta della sua espressione, che «possiamo senz’altro definire Rinascimento giapponese» (Eike Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi).

La mostra, come il catalogo, è curata da Rossella Menegazzo (Professoressa dell’Università degli Studi di Milano) con la collaborazione di Asaka Hiroshi, Watada Minoru, Tsutsui Tadahito, ed è compresa nel biglietto di ingresso agli Uffizi.

Per maggiori informazioni potete consultare il sito ufficiale degli Uffizi a questo link.

 

 

The Japanese Renaissance at the Uffizi

Nature on painted screens from the XV to the XVII centuries

 

26 September 2017- 7 January 2018
Uffizi Gallery, Florence

 

Translated by Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)

 

The Magliabechiana Hall of the Uffizi Gallery hosts, from 26 September until January 7, 2018, an exhibition celebrating the 150th anniversary of friendship between Italy and Japan, the first of its kind at European level. Thirty magnificent Japanese screens, some of which never exposed to the public at back in Japan, are visible in the famous Florentine museum. The thirty-nine works, which are extreme fragility, will not be exposed all simultaneously, but in groups of thirteen at a time, in a monthly rotation.

As illustrated by the title of the exhibition, the golden age of Japanese painting, from the fourteenth to the seventeenth century, is being staged, which coincides fortunately with an equally happy period for Italian art, and Florence in particular, the conventionally defined as “Renaissance”, up to the seventeenth century.

It is quite unusual for the curators to exhibit in the room a single explanatory panel where all the information deemed necessary to understand what the visitor is going to observe is summarized.  The panel contains first of all the reason for the exhibition (the celebration of 150 years of relationships bilateral diplomats between our country and Japan); the type of works on display (landscape and nature paintings); the temporal extremes that mark the period when these delicate works were made (from the Muromachi era at the beginning of the Edo period); the two artistic tendencies to which they belong, the “monochromatic and evocative painting made of essential and fast voids” linked to the Zen Chinese philosophy and the war society as well as typical temples and residences of the samurai, and the most proper Japanese painting, characterized by from gold-colored and flat colors, typical of aristocratic residences. The panel also informs the visitor that all works are supported by the classic screen size or sliding doors. And with this knowledge, the visit begins.

The exhibition occupies the entire room and the pylons mark the center space, but the visitor is completely free to move without following a precise path, in fact, only the beginning of the path is indicated. The only sources of light come from the showcases, each of which has a single work. This creates an intimate and contemplative environment that gives the impression of being in a sacred place as if the visitor was in one of those temples, the original location of the screens.

The time, materials, source and a brief description of what is depicted on paper, or silk, as well as the style of each screen, appears in the captions accompanying each showcase.

However, the classical definition of the format of these works remains unclear. The Uffizi visitor, who has just emerged from the rooms where the pictures (table, canvas, frame) dominate the walls, may not be obvious. Perhaps more explanation about the history, use, and diffusion of these screens, and what makes them classic, would have been helpful because of the importance of these furnishing elements, also exploited as pictorial support, is a rather basic fact for understanding their nature.

Only the catalog of the exhibition (Giunti) reports this information. Sliding screens and sliding doors came to Japan from China and Korea, and with time they grew into this type of six-door pair of screens, normally zig-zig-shaped and used to define the interior spaces of the home and at the same time shield the air flow coming from the outside. The interior of the traditional Japanese house is intentionally linked to the outdoor environment and nature, and Miyata Ryöhei, Commissioner of the Japanese Cultural Affairs Agency, said: “This exhibition offers the Italian public the opportunity to admire the splendor of Japanese art culture and understand its profound sensitivity to nature. ”

The decoration of screens and sliding doors, as home furnishings, castles, and temples, became the manifestation of the power of their owner and was, therefore, the subject of authoritative commissions to the most famous painters, just as in Europe. It was thanks to these dynamics of commissions that Japanese art, in those centuries, came to shine at the highest peak of its expression, which “we can certainly define Japanese Renaissance” (Eike Schmidt, Director of Uffizi Galleries).

The exhibition, like the catalog, is curated by Rossella Menegazzo (Professor of the University of Milan) with the collaboration of Asaka Hiroshi, Watada Minoru, Tsutsui Tadahito, and is included in the entrance ticket to the Uffizi.

For more information, please consult the official Uffizi website.

 

 

Lloyd. Paesaggi toscani del Novecento

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14 luglio 2017 – 7 gennaio 2018
Villa Bardini, Firenze

Di Giulia Bertelli (Università degli Studi di Firenze)

Fino al 7 Gennaio si terrà a Firenze, al terzo piano di Villa Bardini, la mostra “Lloyd. Paesaggi toscani del Novecento”, curata da Lucia Mannini e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze in collaborazione con la Fondazione Parchi Monumentali Bardini Peyron e il patrocinio della Regione Toscana e del Comune di Firenze.

La rassegna è l’ultima, in ordine cronologico, di una serie di esposizioni d’arte organizzate nella villa fiorentina per documentare e far conoscere al più ampio pubblico possibile, i diversi movimenti e i tanti artisti che sono stati protagonisti dell’arte figurativa toscana tra Ottocento e Novecento. 

Llewelyn Lloyd (1879-1949) nasce a Livorno da padre gallese e madre livornese. Compie la prima formazione nella sua città natale presso lo studio di Guglielmo Micheli, allievo di Giovanni Fattori, dove stringe amicizia con giovani artisti, tra i quali Amedeo Modigliani e Oscar Ghiglia, e consolida l’ammirazione verso il “Maestro”, come Lloyd chiama Fattori nelle sue memorie, raccolte nel volume postumo “Tempi andati”, pubblicato nel 1951 a cura di Roberto Papini e nel 2007 rieditato a cura di Dario Matteoni.

Lloyd giunge a Firenze nei primi anni del Novecento per seguire i corsi del “Maestro” all’Accademia di Belle Arti e in questa città scopre i nuovi sviluppi dell’arte italiana ed europea che si riveleranno molto influenti nel suo percorso artistico. Partendo, infatti, dalla lezione macchiaiola, nel corso della sua carriera, Lloyd innesta a questa scelte cromatiche e soluzioni compositive dedotte dallo studio delle sperimentazioni post impressioniste che stavano prendendo campo in Italia in quegli anni: il divisionismo e il sintetismo.

La mostra ripercorre le stagioni pittoriche della carriera artistica del pittore livornese dai primi anni del Novecento fino agli anni trenta, dimostrando come, sebbene la sua opera sia ritenuta troppo spesso un’appendice della pittura macchiaiola e il suo lavoro confinato ad un ambito prevalentemente regionale, Lloyd sia, in realtà, un protagonista e un innovatore dell’arte italiana del ventesimo secolo, come lui stesso desiderava essere ritenuto.

Le prime sale raccolgono i dipinti della stagione divisionista di primo Novecento, quando Lloyd sperimenta le possibilità illuministiche offerte dalla nuova tecnica. Paesaggi marini e dell’entroterra toscano e ligure sono resi con paste cromatiche dense dalle tonalità vivaci e brillanti. La vera protagonista delle opere è la luce, dell’alba e del tramonto, come si vede in Rocce di Manarola e Tramonto a Manarola del 1904.

Seguono le opere della fine degli anni Dieci, nelle quali il pittore torna a riflettere sulla pittura macchiaiola e dà vita a scene di intima quiete nelle quali evoca gli affetti domestici attraverso significativi dettagli, come i giochi dei bambini distrattamente lasciati a terra e il tavolo rustico apparecchiato che si scorge dal portoncino aperto in L’ombra del pergolato del 1909. Scorci dell’amata Isola d’Elba, giardini fioriti come nel trittico Il giardino in fiore. Il viale, la casa, il pozzo del 1907 e angoli di casa sono restituiti sulla tela con colori delicati e una pennellata corposa e più larga della precedente, in cui le ombre prevalgono sulla luce.

Nel breve corridoio della villa rivolto verso la città e l’Arno, come se i dipinti esposti fossero il riflesso di quanto si vede affacciandosi dalle finestre, trovano posto le nostalgiche vedute di Firenze e dei luoghi della città in prossimità della campagna, degli anni Trenta.

La concisione formale contraddistingue le marine, le barche, e i familiari angoli della città dipinti negli anni Venti, che sono raccolti nelle sale che chiudono la mostra, nelle quali i toni caldi del giallo e dell’ocra contrastano con i blu e gli azzurri del cielo e del mare, colpisce fra tutte Barconi all’ormeggio del 1926.

Una piccola stanza è infine dedicata alla grafica. Qui sono intimamente raccolti i disegni che ritraggono la figlia e la moglie del pittore e i dipinti che raffigurano l’interno del suo studio e della sua casa. Lloyd dava molta importanza al disegno, del quale si serviva per appuntare immagini e colori che poi avrebbe riportato sulla tela.

 Nelle sale la luce è rivolta solo verso le opere, lasciando il resto dell’ambiente soffuso. I colori e i contrasti cromatici spiccano dallo sfondo verde bottiglia delle pareti su cui sono appesi i dipinti e tutto trasmette quel senso di intimità, familiarità e pace caratteristico delle opere di Lloyd.

Peccato che i pannelli e le didascalie presenti sotto ogni opera siano solo in italiano, vista la sede della mostra, descrizioni in lingua straniera avrebbero reso la vita e la carriera del pittore comprensibile anche ad un visitatore straniero.

 Sebbene la mostra riesca nel suo obiettivo di presentare la carriera artistica di un importante esponente dell’arte figurativa toscana del Novecento, spesso ignorato, credo che sia più adatta a chi già conosce il periodo storico artistico in cui Lloyd ha vissuto, piuttosto che ad un pubblico poco addentro all’argomento, se non altro, per avere dei termini di paragone con quanto veniva fatto dai suoi contemporanei e capire come mai il pittore possa essere considerato un innovatore.

Accompagna la mostra il catalogo a cura di Lucia Mannini con testi di Mattia Patti, Umberto Tombari e Jacopo Speranza.

 

Villa Bardini – Costa San Giorgio, 2 e via dei Bardi, 1r
orario: dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00 (ultimo ingresso ore 18.00)

 

 

Lloyd. Tuscan Landscapes of the Twentieth Century


14 July 2017- 7 January 2018
Villa Bardini, Florence

Translated by Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)

Until January 7, on the third floor of Villa Bardini, on view is the exhibition “Lloyd. Tuscan Landscapes of the Twentieth Century “, curated by Lucia Mannini and promoted by the Fondazione Cassa di Risparmio of Florence in collaboration with the Fondazione Parchi Monumentali Bardini Peyron and the patronage of the Tuscany Region and the City of Florence.

The exhibition is the latest in a series of chronological art exhibitions organized at Florentine villa.  The exhibitions document and aim make known to the largest possible audience, the various movements and the many artists who have been the protagonists of Tuscan figurative art between the Nineteenth and twentieth centuries.

Llewelyn Lloyd (1879-1949) was born in Livorno to a Welsh father and Livornese mother. He completed his first training in his hometown at the studio of Guglielmo Micheli, a student of Giovanni Fattori. During his time there he created friendships with many young artists, including Amedeo Modigliani and Oscar Ghiglia, and reinforced his admiration for ‘Master’ as Lloyd calls Factori in his memoirs. Lloyd’s memories were collected and published in 1951 posthumously in,  “Times gone” written by Roberto Papini and then re-edited by Dario Matteoni in 2007.

Lloyd arrived in Florence in the early twentieth century to attend courses, with the ‘Master’ at the Academy of Fine Arts. During his time in the city, he discovers the new developments in Italian and European art that became very influential in his artistic career. In fact, starting during his lessons with Machiavilo, and continuing through his career, Lloyd makes chromatic choices and compositional solutions derived from his study of post-Impressionist experiments that were taking place in Italy in those years: divisionism and synthesis.

The exhibition retraces the pictorial styles of the artistic career of the Livornese painter from the early twentieth century to the thirties, demonstrating how, although his work is too often considered to be an appendage of the painting machine and his work confined to a predominantly regional scope, Lloyd is, in fact, a protagonist and an innovator of 20th century Italian art, as he himself wanted to be considered.

The first room shows his paintings from the early 20th-century divisionist era, in which Lloyd experimented with the possibilities offered by the new technique. Tuscan and Ligurian marine landscapes and the Tuscan countryside are made with dense chromatic pastes of lively and brilliant shades. The real protagonist of the works is light, dawn and sunset, as seen in Rocks of Manarola and Sunset in Manarola, both completed in 1904.

Following these works, the painter returns to reflect on Macchiaioli style of painting and to give life to intimate silent scenes in which he evokes domestic affections through meaningful details, such as the games of children distractedly left to the ground and the rustic table which is seen from the door open in The Shadow of the Arbor of 1909. Glimpses of the beloved Elba Island flowered gardens as in the triptych, The flowering garden. In the painting, the avenue, the house, the well of 1907 and the corners of the house are restored to the canvas with delicate colors and a shimmering brush and wider than the previous, where shadows now prevail over the light.

The exhibition continues in the short corridor of the villa facing the city and the Arno, it is as if the painting was the reflection of what you can see from the windows; the nostalgic views of Florence and the city’s places near the countryside of the 1930s.

Characterized by the warm tones of yellow and ocher which contrast with the blue and blue sky and the sea, the viewer can see Barconi all’ormeggio completed in 1926, alongside the marinas, boats, and the familiar corners of the city that Lloyd painted in the 1920s. These works are displayed in the last halls to mark the formal conclusion of the exhibition.

Finally, a small room is dedicated to graphics. Here are intimately collected drawings depicting the daughter and wife of the painter and paintings depicting the interior of his studio and his home. Lloyd gave much importance to the drawing, he used to pin pictures and colors that he would then bring on the canvas.

In the rooms the light is directed only to the works, leaving the rest of the room dim. The colors and contrasts of colors stand out from the green background of the walls on which the paintings are hung. They all transmit that sense of intimacy, familiarity and the peaceful characteristic of Lloyd’s works.

It is a pity that the panels and captions present in each work are only in Italian, given the venue of the exhibition, descriptions in a foreign language would make the life and career of the painter understandable foreign visitors.

Although the exhibition succeeds in the goal of presenting the artistic career of an important Tuscan art figure of the twentieth century, who is often ignored, I think it is more suitable for those who already have an art history background and know about the time in which Lloyd lived, rather than a public, who has little knowledge on the subject. If anything, it would be beneficial to have a comparison with what was done by his contemporaries and understand how the painter can be considered an innovator. The exhibition shows the catalog by Lucia Mannini with texts by Mattia Patti, Umberto Tombari and Jacopo Speranza.

Villa Bardini – Costa San Giorgio, 2 and via dei Bardi,
Tuesday to Sunday from 10.00 to 19.00 (last entry at 18.00)

 

Legati da una cintola

L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città

 
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8 settembre 2017 – 14 gennaio 2018
Palazzo Pretorio, Prato

 
Di Simona Anna Vespari (Università degli Studi di Firenze)
 
Si è aperta l’8 settembre a Prato, nei locali del Museo di Palazzo Pretorio, una mostra davvero interessante e importante per la città toscana.

Curata da Andrea De Marchi e Cristina Gnoni Mavarelli, il percorso espositivo che si articola su due piani intende ripercorrere attraverso le numerose opere l’iconografia della cintola donata dalla Vergine a San Tommaso, simbolo religioso e civile il cui culto era, ed è, particolarmente vivo nella città pratese che ne conserva appunto la reliquia.

Il punto focale dell’esposizione è la ricomposizione della pala di Bernardo Daddi dedicata all’Assunta e che diventerà uno dei prototipi per l’affermarsi di questa importante iconografia. Le varie parti della grande macchina d’altare, di cui oggi restano solo due predelle e la parte superiore, si trovano divise in vari musei (solo la predella con le Storie della Cintola si conserva nel Palazzo Pretorio di Prato) e quindi aver avuto in prestito l’Assunta dal Metropolitan Museum of Art di New York ha reso possibile questa ricomposizione. La possibilità di vedere riunite, a poca distanza l’una dall’altra, le varie parti che componevano la pala è davvero di fondamentale importanza: in particolare, l’ipotesi permette di ricostruire, almeno in parte, un contesto andato purtroppo perduto nel corso dei secoli.

La prima sala, quindi, è di forte impatto e si può dire che è dedicata quasi interamente al Daddi, fatta eccezione per la bellissima lunetta del Maestro di Cabestany, altro importante prestito, che costituisce ad oggi il più antico esempio dell’iconografia di San Tommaso che mostra la cintola.

La mostra gode di un ottimo allestimento: le opere sono visibili in maniera ravvicinata e si può goderne nei minimi dettagli. Per quanto riguarda la ricomposizione della pala d’altare del Daddi si è scelto di disporre le opere separatamente, per poterne agevolare la lettura, mentre sulla parete di fondo della sala è stato posto un grande grafico, indispensabile al visitatore per comprendere l’opera nel suo insieme. L’apparato didattico è curato nei minimi dettagli: si può davvero dire che si tratta di una mostra da cui il visitatore esce con la consapevolezza di aver appreso qualcosa, e non solo di aver goduto di una carrellata di opere; in modo molto sintetico ma utile, sulle pareti viene introdotto il periodo in cui si colloca l’artista mentre sulla parete di fondo insieme alla ricostruzione, vengono illustrati i differenti punzoni (alcuni davvero stupendi) utilizzati da Bernardo Daddi: attraverso queste informazioni, il visitatore viene così invogliato anche a guardare le opere in maniera più approfondita, cercando quei piccoli dettagli che sfuggono a uno sguardo distratto.

La seconda sala si presenta come uno scrigno e l’attenzione cade immediatamente sui fondi oro tardogotici che emergono dalle pareti scure. Al suo interno sono riunite opere di vario genere: manoscritti, sculture e alcune cintole; queste ultime sono riposte in teche di vetro e in alcuni casi la visione può essere complicata, in modo particolare per quanto riguarda le minuscole decorazioni che le ornano, ma la forma propria di questi accessori rende difficile una visione chiara del loro insieme.

Al secondo piano l’esposizione continua con opere dal XV al XIX secolo, testimonianza della fortuna iconografica di questo tema: sulle pareti si susseguono le grandi pale, in un allestimento chiaro ed essenziale. La mostra si conclude con un’interessante sezione dedicata ai “contenitori” della cintola e a tutti quegli oggetti che ruotano intorno alla sua devozione: in questo caso, l’unica nota negativa credo sia l’esposizione di una Croce processionale decorata da entrambi  lati, ma sacrificata in mostra contro il muro così da limitarne la visione di un lato.

Infine, bisogna ricordare che anche il Duomo è parte integrante della mostra: è infatti possibile visitare la Cappella della Cintola, normalmente chiusa al pubblico, permettendo la visita più agevole degli affreschi di Agnolo Gaddi.

 

Tied up by a Belt

The Assumption of Bernardo Daddi and the Identity of a City

September 8, 2017 – January 14, 2018
Palazzo Pretorio, Prato

 
Translated by Nona Debeham (Istituto Lorenzo de’ Medici)
 
On September 8, 2017, a very interesting and important exhibition for the Tuscan city of Prato, opened at the Palazzo Pretorio Museum, Curated by Andrea De Marchi and Cristina Gnoni Mavarelli, the exhibition which covers two-stories, aims to trace, through the numerous works, the iconography of the belt donated by the Virgin to St. Thomas, a religious and civilian symbol whose cult lived, and still lives in the Prussian town that retains the relic. The focal point of the show is the re-creation of Bernardo Daddi’s Altarpiece dedicated to the Assumption, one of the prototypes for affirming this important iconography.  The various parts of the great altar, which today are only two predella and the top, are divided into various museums, only predellas with the stories of the belt is preserved at the Palazzo Pretorio di Prato, the Assumption,  is on loan from the Metropolitan Museum of Art in New York to make possible this re-composition.

The possibilty to see reunited, a small distance from each other, the various parts that compose the alter piece is fundamentally important: In particular, the hypothesis permits the reconstruction, at least in part, a context which was unfortunately lost over the course of the centuries.

The first room is therefore of great impact, devoted almost entirely to the Daddi, except for the beautiful lunette of Cabestany Master, another important loan, which is to date the oldest example of the iconography of San Thomas showing the Belt.

The exhibition has an excellent set-up: the works are visible up close allowing the smallest details to be enjoyed. As for the redistribution of the Daddi altarpiece, it was decided to arrange the works separately, in order to facilitate the reading, while a large graphic was placed on the bottom wall of the room, indispensable for the visitor to understand how they work together.

The didactic display takes care of in the smallest details: one can really say that this is an exhibition from which the visitor comes out with the awareness that he has learned something, and not only has he enjoyed a series of works; in a very synthetic but useful way, on the walls is introduced the period when the artist is placed while on the bottom wall with the reconstruction, are illustrated the different punches (some really wonderful) used by Bernardo Daddi: through this information, the visitor is also enticed to look at the works in more depth, looking for those small details that escape a distracted look.

The second room looks like a chest and the attention goes immediately to the late-Gothic  gold adorments that emerge from the dark walls. Inside there are assembled works of various kinds: manuscripts, sculptures and some girdles: the latter are put in glass jars and in some cases the vision may be complicated, especially with regard to the tiny decorations that adorn them, but the shape of these accessories makes it difficult to have a clear vision of them.

On the second floor, the exhibition continues with works from the 15th to the 19th centuries, witnessing the iconographic fortune of this time: on the walls are the big Altars, in a light and essential setting. The exhibition concludes with an interesting section dedicated to the “containers” of the belt and all those objects that revolve around its devotion: in this case, the only negative note I believe is the exhibition of a processional cross decorated on both sides, but displayed against the wall so only one side is visible.

Last but not least, the Duomo is an integral part of the exhibition: it is possible to visit the Cintola Chapel, which is normally closed to the public, allowing for a more gentle visit of the frescoes by Agnolo Gaddi.

 

I nipoti del Re di Spagna. Anton Raphael Mengs a Palazzo Pitti


 
di Costanza Peruzzi (Università degli Studi di Firenze)
 
Nel 2016 le Gallerie degli Uffizi hanno acquistato dal mercato antiquario un dipinto incompiuto del pittore boemo Anton Raphael Mengs e quest’anno celebrano l’evento con una mostra aperta lo scorso 19 settembre a Palazzo Pitti, luogo in cui l’opera venne ideata e molto verosimilmente anche iniziata, illustrando così le vicende che legarono il pittore alla corte spagnola, all’Italia e in particolare a Firenze.

«Compito di un museo vivo è tutelare le opere, preservare la memoria, trasmettere cultura attraverso mostre e ricerche, ma anche far “respirare” le collezioni con aggiunte mirate, intimamente connesse alla vicende della città, del territorio, della raccolta stessa in cui si verranno a trovare» ha affermato Eike D. Schmidt, direttore degli Uffizi, in merito all’acquisto dell’opera.

Il dipinto in questione raffigura i figli del Granduca Pietro Leopoldo di Lorena e di Maria Luisa di Borbone, Ferdinando e Maria Anna, e venne realizzato durante il soggiorno fiorentino dell’artista del 1770-1771.

Fulcro della mostra è il confronto tra quest’opera e quella con il medesimo soggetto commissionata a Mengs dal nonno materno dei due fanciulli, il re di Spagna Carlo III di Borbone, ad oggi conservata al Museo del Prado di Madrid.
Le due tele di Mengs probabilmente furono realizzate nello stesso periodo, ciononostante parlano due lingue totalmente differenti: la tela di Madrid testimonia nelle vesti, negli accessori e negli arredi, tutto lo sfarzo e la maestosità della corte iberica, mentre quella fiorentina si fa portavoce dell’aria moderna e illuminista che si respirava all’epoca nel Granducato toscano. Quest’ultima è, nel linguaggio, oggettivamente più vicina al ritratto dell’Arciduca Francesco all’età di sette anni, realizzato pochi anni dopo da un altro pittore tedesco attivo in quegli anni a Firenze, Johan Zoffany (1733-1810) e che è esposta in mostra a fianco dei due doppi ritratti, per evidenziare affinità e differenze.

La piccola esposizione occupa la Sala delle Nicchie, al primo piano di Palazzo Pitti, spesso sede di esposizioni temporanee. È la sala di passaggio dalla Galleria Palatina (Sala di Venere) agli Appartamenti Reali (Sala Verde), ed è situata perfettamente al centro del palazzo, affacciata sul piazzale esterno. A fine Settecento venne decorata dal pittore livornese Giuseppe Maria Terreni in stile neoclassico. Le opere di Mengs, amante dell’arte antica, di Michelangelo e di Raffaello, non potevano auspicare ad una cornice più appropriata!

Lasciatisi quindi alle spalle la Sala di Venere, con i suoi Tiziano, i Rubens, i Salvator Rosa, la Venere Italica di Canova e i numerosi altri capolavori lì esposti, si varca la soglia della Sala delle Nicchie. Il visitatore capisce subito di essere entrato in un ambiente effimero, distinto dalla collezione permanente: non ci sono cartelloni o ridondanti indicazioni a segnalare la mostra, sono piuttosto le luci, il bagliore dei colori dei dipinti e del pavimento (rivestito di moquette rossa) a suggerirla.

L’esposizione occupa l’intera sala, rettangolare, le cui pareti decorate non possono accogliere i capolavori in mostra, per cui diventa indispensabile l’uso di pannelli espositivi che purtroppo coprono la vista delle nicchie che caratterizzano e danno il nome alla sala. I pannelli sono stati disposti su un unico lato della stanza, in un gioco di concavità e convessità che frammenta lo spazio e forma piccoli ambienti in cui raccogliere le opere per temi.

Nel primo ambiente sono disposte tre opere che introducono l’ambito della mostra: alle pareti laterali vi sono due ritratti di Mengs, uno del suo committente spagnolo, Carlo III (1767-1769 circa), e l’altro del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo (1770); nella parete centrale spicca il grande dipinto raffigurante la famiglia imperiale Asburgo al completo, con Maria Teresa e Francesco I d’Austria con i loro figli a Schönbrunn (1756), stavolta del pittore svedese naturalizzato austriaco Martin van Meytens.
Nella piccola parete che separa questo ambiente introduttivo da quello principale sono stati esposti: il ritratto di una giovane e ancora nubile Maria Luisa di Borbone (1763), vestita all’ultima moda, realizzato dalla mano di Lorenzo Tiepolo, e la famiglia granducale, Pietro Leopoldo, la stessa Maria Luisa e dieci dei loro sedici figli, ritratta dal pittore girovago Wilhelm Berczy, attivo a Firenze negli anni Ottanta del Settecento.

Il terzo ambiente, centrale sotto ogni punto di vista, sia fisico sia nel contenuto, accoglie il nuovo acquisto protagonista di questa mostra e le opere che con questo debbono essere messe a confronto, ovvero quei ritratti ai nipoti che Carlo III commissionò a Mengs in cambio del suo lasciapassare per l’Italia: il ritratto di Maria Teresa Giuseppa Carlotta Giovanna di Asburgo-Lorena (1770-1771), il ritratto del piccolo Arciduca Francesco di Asburgo-Lorena (1770), i due doppi ritratti di Ferdinando e Maria Anna (quello del Prado e quello degli Uffizi) e un altro ritratto dell’Arciduca Francesco di Asburgo-Lorena, cresciuto di cinque anni, di Zoffany.

Uno di fianco all’altro, distinti tra loro dal sapiente utilizzo della luce, tutti i ritratti esprimono la sensibilità della mano dell’artista, ma dal confronto la differenza tra le tele destinate alla Spagna e il recente acquisto fiorentino emerge con estrema chiarezza: le prime, attraverso le stoffe cangianti delle vesti, il rosso e l’oro della tappezzeria, i gioielli e le cuffie di trina cerimoniali, descritte mirabilmente dall’artista, raffigurano tutto il fasto del cerimoniale spagnolo, l’idea stessa che quella corte aveva del concetto di sovranità; al contrario, la pacatezza dei toni della tela fiorentina è emblematica della diversa situazione politica e conferisce all’intera opera una naturalezza che, per quanto riguarda la posa di Ferdinando, per esempio, è stata ricollegata ai putti in fasce nei tondi di Luca Della Robbia, nella Loggia degli Innocenti (1487), cosa che giustifica ulteriormente il ritorno del capolavoro a Firenze!

Questo lavoro di confronto termina, come abbiamo prima accennato, con l’opera di Zoffany, che avvicinandosi nel linguaggio e nei colori alla versione fiorentina del doppio ritratto, conferma la diversità ideologica delle due committenze e la differenza nello stile che ne consegue.

Nell’ultimo pannello sono sistemati i due autoritratti di Mengs e di Zoffany, entrambi nella collezione degli Uffizi. Fu lo stesso Mengs nel 1773 a sistemare il suo sotto quello che all’epoca si riteneva fosse Raffaello Sanzio, suo idolo, volendo come lui farsi rinnovatore della pittura. Quello di Zoffany, nella collezione dal 1909, con i limoni e il cagnolino lancia un messaggio diverso: il suo concetto di pittura si rifà al naturalismo e il cagnolino rappresenta qui proprio la fedeltà alla natura.

Dalla parte opposta della sala, quella che guarda verso la corte esterna sono disposte due vetrine in cui si fa riferimento alla carriera letteraria di Mengs nel periodo fiorentino: una lettera in cui il pittore dà istruzioni per la conservazione del ciclo di affreschi della Cappella Brancacci danneggiato da un incendio, una supplica al Granduca Pietro Leopoldo per ottenere il permesso di riproduzione delle sculture antiche e del Rinascimento fiorentino, il manoscritto da lui redatto sulla vita del Correggio e un carboncino di Santi Pacini che riproduce un’opera perduta di Mengs.

La mostra, ammirabile fino al 7 gennaio prossimo, è tanto piccola quanto preziosa. Preziosa perché, oltre a pubblicizzare un importante investimento delle Gallerie, fa luce su un epoca artistica che non gode della stessa simpatia delle epoche precedenti (eppure la trasformazione del complesso degli Uffizi in museo aperto al pubblico si deve proprio a Pietro Leopoldo!). Il Settecento fiorentino in generale, e l’ambito della ritrattistica in particolare, sono spesso adombrate dai momenti di gloria dell’arte del capoluogo toscano. Nel genere del ritratto questo passare in secondo piano è di solito dettato dall’anonimato dei ritrattisti e dei ritratti, ma non è questo il caso del doppio ritratto di Mengs.

Il percorso è una camminata tra nobili personaggi, per la maggior parte bambini, avvolti in vesti dai colori vividi, inseriti in ambienti luminosi, e la sensazione che si prova non rimanda in alcun modo alla comune idea della buia galleria di ritratti.
La comunicazione verbale fa poi da ottimo mediatore tra il visitatore e la storia che i curatori, Matteo Ceriana e Steffi Roettgen, hanno voluto raccontare.

La mostra è inserita nel complesso espositivo della Galleria Palatina. A questo link potete trovare maggiori informazioni.
 
 

 
Translated by Nona Debeham (Istituto Lorenzo de’ Medici)
 
In 2016, the Uffizi Galleries acquired, on the antique market, an incomplete work by Bohemian painter Anton Raphael Mengs. The event was celebrated this year with an exhibition opening on 19 September at Palazzo Pitti, the place in which the work was conceived and likely created, thus illustrating the events that linked the painter to the Spanish court, to Italy and in particular to Florence.

“The task of a living museum is to protect works, preserve memory, transmit culture through exhibitions and research, but also to” breathe life ” to collections with specific additions that can be linked to the city, territory, and the collection itself as they come across them “said Eike D. Schmidt, director of the Uffizi, about the purchase of the work.
The painting depicts the children of Grand Duke Pietro Leopoldo of Lorena and Maria Luisa of Bourbon, Ferdinand and Maria Anna, and was made in 1770-1771 during the stay of the artist in Florence.

The fulcrum of the exhibition is the comparison between this work and one with the same subject commissioned by the King of Spain Charles III of Bourbon, the grandfather of the two children, which has been preserved today at the Prado Museum in Madrid.

The two Mengs canvases were probably made in the same period, though they speak two totally different languages: the Madrid canvas is a testimony to the garments, accessories and furnishings, all the glamor and majesty of the Iberian court, while Florentine is a spokesman for the modern and enlightened air that breathed at that time in the Tuscan Grand Duchy. The latter, in imagery, is objectively closer to the portrait of Archduke Francis at the age of seven years, realized a few years later by another German painter who was active in those years in Florence, Johan Zoffany (1733-1810) and whose work is shown on display beside the two double portraits, to highlight similarities and differences.

The small exhibition occupies the Sala delle Nichie, on the first floor of Palazzo Pitti, often home to temporary exhibitions. It is the passage room from the Palatine Gallery (Venus Room) to the Real Apartments (Green Room) and is perfectly located in the center of the building, overlooking the outside square. At the end of the eighteenth century, Livornese painter Giuseppe Maria Terrains decorated it in the neoclassical style. The works of Mengs, lover of ancient art, of Michelangelo and Raphael, could not hope for a more appropriate frame!

Leaving behind the Venus Room, with the Titian, the Rubens, the Salvator Rosa, the Venere Italica of Canova and the numerous other masterpieces displayed there, you step across the threshold of the Sala delle Nichie, The visitor immediately realizes that he has entered an ephemeral environment, distinct from the permanent collection: there are no billboards or redundant indications to signal the exhibition, rather the lights, the glow of the paintings and the floor, covered with red carpet, suggest it.

The exhibition occupies the entire rectangular hall, whose decorated walls cannot accommodate the masterpieces on display, so it becomes indispensable the use of exhibition panels that unfortunately cover the view of the niches, which give the name to the hall. The panels were arranged on one side of the room, in a concave and convex pattern that fragments the space and forms small environments in which to collect works by themes.

In the first area there are three works that introduce the conceptof the exhibition: on the side walls there are two portraits of Mengs, one of his Spanish commissioner, Carlo III (about 1767-1769), and the other of the Grand Duke of Tuscany Pietro Leopoldo (1770); in the central wall stands out the great painting depicting the full imperial family of Habsburg, with Maria Teresa and Francis I of Austria with their children in Schönbrunn (1756), this time by the Austrian nationalist painter Martin van Meytens.

The small wall separating this introductory zone from the main one has been exposed: the portrait of a young and still unmarried Maria Luisa of Bourbon (1763), dressed in the latest fashion, attributed to Lorenzo Tiepolo’s hand, and the Grand Ducal family, Pietro Leopoldo, Maria Luisa himself and ten of their sixteen children, portrayed by Wilhelm Berczy, a traveling painter, active in Florence in the eighteen-eighties.

The third section, central in every respect, both physically and in content, welcomes the new acquisition of the protagonist of this exhibition and the works that are to be compared with that, those portraits to the grandchildren whom Charles III commissioned Mengs in return of his passage for Italy: the portrait of Maria Teresa Giuseppe Carlotta Giovanna of Habsburg-Lorena (1770-1771), the portrait of the small Archduke Francis of Habsburg-Lorena (1770), the two double portraits of Ferdinand and Maria Anna that of Prado and that of the Uffizi) and another portrait of de The Archduke Francis of Habsburg-Lorraine, who grew up for five years, by Zoffany.

Alongside each other, distinguished by the astute use of light, all the portraits express the sensibility of the artist’s hand, but by contrasting the difference among the canvases destined for Spain and the recent Florentine purchase emerges with extreme clarity: the first, through the changing fabrics of the garments, the red and gold of the upholstery, the jewels and the lace of the ceremonial headpieces, admirably depicted by the artist, represent the whole throne of the Spanish crown, the very idea that that court had the concept of sovereignty; on the contrary, the softness of the tones of the Florentine canvas is emblematic of the different political situation and gives the whole work a naturalness which, for instance, was modeled by Ferdinand, for example, and recalls the group of cherubs in the rotunda of Luca Della Robbia , in the Loggia degli Innocenti (1487), which further justifies the return of the masterpiece to Florence!

This comparison of works ends, as we mentioned earlier, with Zoffany’s work, approaching language and colors portrait of the Florentine version, it confirms the ideological diversity of the two commissions and the difference in the style that follows. In the last panel are the two self-portraits of Mengs and Zoffany, both in the Uffizi collection. It was Mengs himself in 1773who sought to emulate his idol, Raphael, and renew painting following his example.. Zoffany’s collection in 1909, with lemons and little dog, offersa different message: his concept of painting is based on naturalism and the dog is just about loyalty to nature.

From the opposite side of the room, the one looking out to the outside courtyard is furnished with two showcases in which reference is made to Mengs’ literary career during the Florentine period: a letter in which the painter gives instructions for the preservation of the fresco cycle of the damaged Brancacci Chapel from a fire, a petition to Grand Duke Pietro Leopoldo for permission to reproduce the ancient sculptures and Florentine Renaissance, the manuscript written by him on the life of Correggio and a charcoal by Santi Pacini that reproduces a lost work of Mengs.

The exhibition, on view until January 7, is as small as it is precious. It is valuable not only to advertise an important investment of the Uffizi Galleries but also to give light to an artistic age that does not enjoy the same public recognition as earlier periods (yet the transformation of the Uffizi complex into a museum open to the public is due to Pietro Leopoldo!). The Florentine eighteenth century in general, and the scope of portraiture in particular are often adorned with the moments of glory in the art of the Tuscan capital. In the genre of the portrait, this passage in the background is usually dictated by the anonymity of portraitists and portraits, but this is not the case with the double portrait of Mengs.

The path is a walk between noble characters, mostly children, wrapped in vivid colors, in bright environments, and the feeling that it exudes is not at all that of a dark gallery of portraits. The visual message makes a great mediator between the visitor and the story that the curators, Matteo Ceriana and Steffi Roettgen, wanted to tell.

The exhibition is included in the exhibition complex of the Palatina Gallery. For more information please go to this link.

 

Florence Biennale 2017: eARTh – Creativity & Sustainability

 

By Nona Debenham (Istituto Lorenzo de’ Medici)

 

The XIth Florence Biennale directed by Jacopo Celona and curated by Melanie Zefferino ran from October 6th through October 16th, 2017, and showed the works of over 450 artists coming from 72 countries and five continents. The event is a major contemporary art exhibition in Florence and is regarded as an outstanding showcase of the international contemporary artistic production. Every two years the Florence Biennale enlivens the Renaissance city with a program of events such as conferences, performances, workshops, and lectures.

The theme of this year’s Biennale is eARTh- Creativity & Sustainability and aimed to contribute to a future in which both creativity and sustainability inspired artists. For over two decades the Florence Biennale has attracted artists from around the world. The exhibition is not only attended by those that make art, but also by hundreds of people who teach, learn, promote, collect and enjoy art. Held at the Fortezza da Basso, the exhibition included digital art, Video Art, Photography, Installation Art, Performance Art as well as Painting, Drawing, Mixed Media, Sculpture, Ceramic Art, Textile & Fiber Art, and Jewelry Art.

During the XI edition of Florence Biennale, the International Exhibition of Contemporary Art in Florence, the “Lorenzo il Magnifico” prize was awarded to the career of Sauro Cavallini, a prominent Tuscan sculptur, who was recently featured inthe exhibition Intrusioni – Sauro Cavallini at the Civic Archaeological Museum in Fiesole (June 15th – October 15th). The event, born 20 years ago by Piero and Pasquale Celona, aims to outline a vision of the future in which creativity and sustainability are the founding principles of an ‘ecosystem’ of art and culture with a respect for nature and all life forms on Earth. The prize to Sauro Cavallini was awarded, “for masterfully infusing, through the art of sculpture, the life of form, giving the bronze and the rhythm of original figures as harmonious as the anatomies of extreme naturalness in their stylization” (Lorenzo il Magnifico Lifetime Achievement Award, Florence Biennale, 2017). The goal of the Florence Biennale is to give a global representation of contemporary art from established artists alongside figures emerging from around the world.

One of the emerging artists, also the featured artist of the show, is the up and coming Tim Bengel. A young German artist, known for his unique style of painting by using some rather uncommon materials, sand, gold, and glue. Using the technique of filling the sticky canvas with sand and gold, the artist transforms complex motifs into unique, minimalist, and expressive works. Beyond developing his own technique for making art, Bengel has a strong presence in social media, where some of his performance videos have reached over 250 million views. At the Biennale, the artist, for the majority of the exhibition only had one work on display accompanied by one of his viral videos playing on a loop for visitors to watch. During the weeklong show, Bengel worked on creating a new work, allowing visitors to gain inside access into his creative process. At the end of the week a new work, dedicated to Italian architecture, was revealed. This is typical of Bengel to have a live unveiling of his creations, leaving the sand on the work and flipping the canvas vertically, exposing the image underneath. Bengel’s art is unique and stands apart from his peers and more traditional art. He spoke at the Biennale about how for him art is about the creative process and about breaking traditions of what people think art is. The works of Bengel embody the creative process that the Biennale looks to support.

Besides hosting a featured artist like Tim Bengel, the Biennale hosted a multitude of artists. The range of art in the walls of the Fortezza da Basso is vast, ranging from fiber art to installations. The show also included the jewelry collection known as Quietude. Funded by the European Union and made by the research and innovation project H2020-Wear Sustain-2017, these accessories are made for women with various levels of hearing loss. The jewelry translates sounds into vibrations so that those who wear them are able to detect voices and sounds through the body. The pieces are truly works of art in themselves yet have a functional element to them. This type of display embodies what the Biennale XI is really about.

The show was a gathering place to see artists of all genre and walks of life coming together to promote not only their own personal creations but also the idea of art for a sustainable future. It was interesting to see how artists represented this theme. Some artists like took a more literal approach using earth-friendly renewable materials for their works, while others took a more theoretical approach using digital media to represent their ideas.

The XI Biennale is as interesting for the public as for the artists themselves, as it is a chance for everyone to make contacts from all over the world. The event allows the likes of artists, collectors, museum officials and the public to have dialogues about contemporary art and how it can influence sustainability and have an impact on the future earth.

For more information about the biennale and future events please go to this link.

 
 

 

Traduzione di Costanza Peruzzi (Università degli Studi di Firenze)

 

L’undicesima edizione di Florence Biennale, diretta da Jacopo Celona e curata da Melanie Zefferino, dal 6 al 16 Ottobre 2017, ha presentato i lavori di 450 artisti provenienti da 72 paesi di cinque continenti diversi. L’evento è la maggiore esposizione di arte contemporanea del capoluogo toscano, eccezionale vetrina della produzione artistica contemporanea. Ogni due anni la Florence Biennale rianima la città rinascimentale con un programma di eventi e conferenze, performances, workshops e letture.

Il tema della Biennale di quest’anno è stato eARTh-Creatività e Sostenibilità e mirava ad un futuro in cui creatività e sostenibilità, insieme, potranno ispirare gli artisti.
Per oltre due decadi la Florence Biennale ha attratto artisti da tutto il mondo. La mostra non è solo frequentata da coloro che fanno arte, ma da centinaia di persone che insegnano, imparano, promuovono, collezionano e amano l’arte.

Ospitata nei locali della Fortezza da Basso, l’esposizione ha dato spazio alla Digital Art, alla Video Art, alla fotografia, ad installazioni e performances, oltre che alla pittura, al disegno, alla scultura, all’arte plastica, alla gioielleria e Mixed Media.
In questa edizione, il premio alla carriera “Lorenzo il Magnifico” è stato riconosciuto allo scultore toscano Sauro Cavallini, le cui opere erano state recentemente esposte al Museo Archeologico di Fiesole, dal 15 Giugno al 15 Ottobre 2017, in occasione della mostra Intrusioni – Sauro Cavallini.

L’evento, nato venti anni fa da un progetto di Piero e Pasquale Celona, intendeva quest’anno illustrare un futuro in cui creatività e sostenibilità saranno i principi fondanti di un “ecosistema” di arte e cultura che rispetti la natura e tutte le forme di vita sulla terra. Il premio alla carriera è stato conferito a Cavallini “per aver magistralmente infuso, attraverso l’arte della scultura, vita alla forma, conferendo levità e movimento al bronzo di figure originali quanto armoniose che sono espressione di uno straordinario estro creativo” (Premio Lorenzo il Magnifico alla carriera, Florence Biennale, 2017).
Obiettivo della Biennale è quello di dare una rappresentazione globale dell’arte contemporanea dagli artisti affermati fino a quelli emergenti di tutto il mondo.

Uno degli artisti emergenti, nonchè artista ospite di quest’edizione, è stato il promettende Tim Bengel. Giovane artista tedesco, conosciuto per il suo stile unico di dipingere usando materiali fuori dal comune, sabbia, oro e colla. Coprendo la tela appiccicosa con sabbia e oro, l’artista trasforma complessi motivi in lavori unici, minimalisti e espressivi. Oltre allo sviluppo della sua personale tecnica artistica, Bengel ha una forte presenza sui social media, dove i video di alcune sue performances hanno ottenuto più di duecentocinquanta milioni di visualizzazioni. Qui alla Biennale, l’artista, per la maggior parte della mostra ha avuto esposto una sola opera accompagnata da uno dei suoi video virali riprodotto a ripetizione per il pubblico. Per l’intera settimana Bengel ha lavorato ad una nuova opera, consentendo ai visitatori di assistere al processo creativo. Al termine della Biennale, l’opera, dedicata all’architettura italiana, è state rivelata. La scoperta dell’opera dal vivo, come fosse una performance, è tipico del modus operandi dell’artista, che in questo caso ha lasciato la tela coperta di sabbia, e poi, issandola in verticale, ne ha disvelato l’immagine sottostante. L’opera di Bengel rimane unica nel suo genere, lontana dall’arte tradizionale. L’artista stesso spiega come l’arte sia per lui un processo creativo che rompe l’idea comune del fare arte e questa personale idea incarna in tutto e per tutto i principi di creatività ricercati in questa Biennale.

Oltre ad ospitare artisti quali Bengel, la Biennale ha accolto una moltitudine di altri artisti, spaziando dall’arte tessile alle installazioni. La mostra ha inoltre incluso la collezione di gioielleria conosciuta come Quietude, fondata dall’Unione Europea e sviluppata dal progetto di ricerca e innovazione H2020-Wear Sustain-2017, che propone accessori realizzati per donne con vari livelli di sordità. Questi gioielli traducono i suoni in vibrazioni di modo da permettere alle donne che li indossano di avvertire suoni e voci attraverso il corpo. I pezzi sono veri e propri capolavori artistici con in più la componente della funzionalità e come le suddette opere di Bengel incarnano a pieno il senso di questo evento.

Questa mostra è stata un luogo di incontro che ha visto artisti di ogni genere e cammino artistico uniti insieme per promuovere non solo la loro creazione personale ma anche un’idea di arte per un futuro sostenibile.interessante è stato vedere come gli artisti rappresentassero questo tema, alcuni avendo un approccio più letterale e utilizzando materiali ecosostenibili, altri con un approccio più teoretico usando media digitali per rappresentare la loro idea.

La XI Biennale è stata interessante sia per il pubblico che per gli artisti stessi, essendo per ognuno di loro un’opportunità per allacciare contatti con l’intero mondo dell’arte. L’evento ha permesso agli artisti, ai collezionisti, agli operatori museali e al pubblico di sviluppare un dialogo sull’arte contemporanea e su come questa potrà influire sulla sostenibilità e avere un impatto sul futuro della Terra.

Potete trovare ulteriori informazioni a questo link.