The Stibbert Museum: A Cultural Paradox

By Justin Barber (Lorenzo de’ Medici)

The Stibbert Museum is an experience quite unlike any other to be found in Florence. Upon entering its small and constricted lobby, there is little evidence of what treasures may lie in wait for those who do not have prior knowledge of Frederick Stibbert or his 19th-century collecting habits. What results, however, from this voyage into the past is both a sense of wonder and accessibility, which is ultimately stifled by crippling museological decisions.

It is immediately clear upon entering the first room that this collection is vast. The large, open space of this and subsequent rooms are packed so tightly with a wide range of armor, paintings, furniture, and ancient artifacts that they seem to challenge even the densest rooms of the Pitti Palace. This aspect creates the immediate dilemma of what to focus on as the quality of the collection and individual items demand attention and time to appreciate. To this end, the greatest advantage of this chosen method of display is that there is no barrier between the visitor and the objects on display. In contrast, the sheer variety of objects also means that some very odd choices had to be made in order to display everything the museum has to offer. For example, the first area is lined with armor, weapons, furniture, and paintings, all of the European tradition; however, tucked beneath the staircase are several Egyptian sarcophagi, as well as other sacred burial objects.

The paradox that is created due to the size of the collection and the 19th-century method of display, as dictated in Fredrick Stibbert’s will, spills into all aspects of the museum. The lighting of the museum is very much based on natural light shining through stained glass windows. The little artificial lighting that is provided is sparse and rarely complimentary to the collection, with the exception of one room using a much more contemporary method of exhibition. Much of this collection is also displayed in a way reminiscent of a cabinet of curiosities, but with weaponry and domestic items from all over the world replacing natural wonders. This makes it very difficult to decipher how these pieces may relate to each other, aside from their similar functions and generalized geographic association.

This cluttered and stagnant presentation method also forces some very bizarre curatorial choices for temporary exhibitions, such as Giovanna Ferragamo’s fashion collection. In this case, mannequins featuring Ferragamo’s 20th-century fashion designs are randomly dispersed among the very 19th-century furniture and living quarters, noticeably changing the natural feel of the rooms into something a bit more surreal. This seems counter-intuitive to the museum’s goal of capturing the experience of 19th-century exhibition styles, as Fredrick Stibbert intended, regardless of the museum’s intentions to celebrate the “rags to riches” parallel between the Stibbert and Ferragamo families. In an even more incomprehensible decision, Stibbert’s extremely rare collection of 1876 Japanese Sword Hunt weapons and armor are only on limited display by special request three times a week. This specific part of his collection has the potential to draw people from all over the world and is prominently displayed in the museum’s catalogs, but its limited access severely hinders its cultural value to the average visitor. It may be a simple matter of conservation; however, there is a thin line between historic preservation and cultural relevance.

Throughout the museum, the little information provided is not very helpful in overcoming the challenge of comprehending the collection. There is little in the way of descriptions and the tour guide provided spoke very little, if any, English. In addition, the sporadically offered texts are often a mere overview describing the room’s organization in very general terms. No specifics are given and many details are up to the visitor to decipher, such as which collections are European, Islamic, Indian, or Persian. Given the size of the collection and the unchangeable method of display, it’s understandable that the museum would struggle to create a more comprehensive experience – yet it is apparent that much more could be done.

The size and quality of the collection, the dense method of display, and the limited information all beg for one very important aspect: time. What time is provided is unsatisfactory at best. Visitors are given one hour to see the entire collection, which for anyone with more than a passing interest, is not nearly enough. The tour guide, who doubles as a guard, sets the pace for the entire visit and can create some very awkward moments during the tour, such as quickly rushing a tour group through a door while pointing to a picture above it and simply saying “Botticelli!” Regardless of interest, the tour moves forward with a deliberate pace, for better or worse.

Despite all of these criticisms, there is no doubt that this collection is worth seeing. There is no other like it in Florence and perhaps the world. Fredrick Stibbert’s original curatorial decisions and fascinating collection tastes have created an experience that would be lost with a more contemporary approach. Simple modern changes, however, could drastically improve the visitor’s experience and, in turn, increase the relevance of the museum to a broader audience. Ultimately, it is the challenge of the staff and trustees to resolve the inherent paradox of bringing the Stibbert Museum into the 21st century without sacrificing what makes the overall experience so special. No easy task, indeed.

 

Il Museo Stibbert: un paradosso culturale

di Justin Barber (Lorenzo de’ Medici)

Il Museo Stibbert è un’esperienza abbastanza differente da quelle che di solito si incontrano a Firenze. Dall’entrata, un piccolo corridoio angusto, non si ha idea di quali tesori potrebbero trovarsi all’interno, almeno per coloro che sono privi di conoscenze pregresse relative a Frederick Stibbert o alle sue attitudini di collezionista del XIX secolo. Ciò che emerge, comunque, da questo viaggio nel passato, è un senso sia di meraviglia, sia di accessibilità nei confronti dell’oggetto in esposizione, che è in definitiva soffocato da scelte museologiche avventate.

È chiaro da subito, una volta entrati nella prima sala, che la collezione è vasta: questo ambiente, come le stanze seguenti, è aperto e grande, ma decorato in maniera così fitta da un’ampia gamma di armature, dipinti, mobili, e antichi manufatti che sembra sfidare anche le più dense sale di Palazzo Pitti. Questo aspetto crea il dilemma immediato di ciò su cui focalizzarsi, dato che sia la qualità della collezione che i singoli manufatti richiedono attenzione e tempo per essere apprezzati. A tal fine, il maggior beneficio di questa scelta espositiva è che non c’è alcuna barriera tra il visitatore e l’oggetto in mostra. Al contrario, la grande varietà delle opere comporta anche che alcune scelte molto insolite vengano fatte per poter esporre tutto ciò che il museo ha da offrire. Per esempio, la prima area è circondata da armature, armi, mobilia e dipinti, tutti di tradizione europea, ma proprio sotto la rampa di scale sono rintanati diversi sarcofagi egizi insieme ad altri oggetti sacri funerari.

Il paradosso che viene creato, dovuto alla grandezza della collezione e all’allestimento del XIX secolo, così come fu dettato nel testamento di Frederick Stibbert, è presente nell’intero museo e in tutti i suoi aspetti. L’illuminazione ricorre soprattutto alla luce naturale che filtra attraverso le vetrate, mentre quella artificiale è usata di rado e non riesce sempre a omaggiare la collezione, eccezion fatta per una stanza che usa un metodo di esposizione più recente. Molto di questa raccolta è anche presentato in maniera da ricordare un gabinetto di curiosità, che vede però le meraviglie e rarità naturali rimpiazzate da armi e oggetti domestici provenienti da tutto il mondo. Questo rende molto complicato decifrare come ogni pezzo sia in relazione con l’altro, a parte la loro simile funzione e la generica associazione geografica.

Una presentazione così ingombrante e stagnante forza anche alcune scelte curatoriali bizzarre nell’organizzare mostre temporanee, come quella (ora in corso) sulla moda di Giovanna Ferragamo, in cui i manichini con indosso le sue creazioni novecentesche si trovano sparsi in modo casuale tra l’arredo del XVIII secolo, alterando notevolmente la sensazione naturale e originale dei quartieri una volta abitati e rendendoli surreali. Tutto questo però non è nelle intenzioni del museo, giacché una delle didascalie rivela che tale accostamento è dovuto e solamente legato all’interesse di Stibbert per la moda e al fatto di essere parente di Ferragamo. Per una decisione ancora più incomprensibile, la collezione estremamente rara di spade, armi e armature giapponesi, raccolta da Stibbert dal 1876, è visibile soltanto su richiesta tre volte a settimana. Proprio questi oggetti hanno la capacità di attirare persone da tutto il mondo e vengono preminentemente mostrati nei cataloghi del museo, ma l’accesso limitato è un ostacolo al suo valore culturale per la maggior parte dei visitatori; può essere semplicemente un problema di conservazione, ma esiste una linea sottile tra la preservazione storica e la rilevanza culturale.

Attraverso il museo, le poche informazioni che si incontrano non sono del tutto adatte a far comprendere la natura della collezione: c’è poco in termini di descrizione, e anche il personale che accompagna i gruppi durante la visita parla molto poco, se lo fa, in inglese. In più i testi, piuttosto sporadici, offrono semmai una generica descrizione dell’ordinamento della stanza e, non avendo altro di più specifico, è compito del singolo visitatore decifrare cosa fa parte delle collezioni europee, islamiche, indiane o persiane. Vista l’ampiezza della raccolta e dato il suo invariabile allestimento, è comprensibile che il museo lotti per creare un’esperienza più comprensiva – ma è evidente che molto di più potrebbe essere fatto.

La ricchezza e la qualità della collezione, il denso metodo di esposizione e le informazioni limitate, conducono insieme a un aspetto molto importante: il tempo. Il tempo concesso infatti non è abbastanza, ai visitatori è lasciata solo un’ora per ammirare l’intero museo, sessanta minuti che per chiunque abbia più di un interesse superficiale non sono lontanamente adeguati. La guida ricopre anche la funzione di custode e imposta il ritmo di tutta la visita, creando talvolta alcuni momenti davvero scomodi nel corso del tour, come l’affrettare un gruppo verso una porta indicando allo stesso tempo un dipinto sopra di essa e semplicemente dicendo “Botticelli!”. Senza considerare interessi personali da parte del visitatore, l’itinerario prosegue con un’andatura impostata, che a lui piaccia o no.

Nonostante tutte queste critiche, non c’è dubbio che questa raccolta meriti di essere vista, anche perché non ce ne sono di simili a Firenze e, forse, nemmeno al mondo. Le scelte curatoriali originali di Frederick Stibbert e il suo affascinante gusto collezionistico hanno creato un’esperienza che sarebbe stata persa con un approccio più contemporaneo. Semplici e moderne modifiche, comunque, potrebbero migliorare drasticamente la percezione del visitatore e, inoltre, aumentare l’importanza del museo fino a raggiungere un pubblico più ampio. Infine, è una sfida per lo staff e gli amministratori cercare di risolvere l’inerente paradosso di portare il Museo Stibbert nel XXI secolo senza sacrificare ciò che rende tutta l’esperienza così speciale. Un’impresa non semplice, effettivamente.