By Silvia Zanella (University of Florence)
Until June 24, the MNAF, the Alinari National Museum of Photography, is home to the exhibition, Joel Peter Witkin: The Master of his Masters, curated by Baudoin Lebon. Joel Peter Witkin – who began his career during the Second World War, during which he documented the daily life of American soldiers – works with his hands creating and printing collages. His themes deal with subjects that today’s society tends to reject, such as the deformation of the body, death as the counterpart of life, and mysticism. These are not easy topics to relay to the public; however, the curator has succeeded in presenting a display that helps in this approach.
The show is organized in an extremely logical way, one which both assists in understanding the works and reflects the artist himself. He is an artist in all respects, as, in most cases, he takes famous paintings and remakes them with models whose bodily beauty is the opposite of the Renaissance ideas to which one is accustomed. To understand this, one is helped by the display created by a series of panels that divide the rectangular temporary exhibition space. One enters into a sort of hallway and is assaulted by these disturbing images. Unfortunately, the introductory text panel explaining the exhibit is located on the wall next to the entrance, which is behind the visitor’s back, making it difficult to see. One finds it, then, at the end of the visit, but only in English, with the sense that the curator has forgotten the Italian translation.
The space is characterized by a logic that pervades every detail. First, the colors: Witkin’s photographs are almost all in black-and-white (silver bromide prints) and the display reflects this choice, while also enhancing it, as the panels on which the works hang are white, their frames are black, and their mattes are also white. In addition, black is the color of MNAF, which one may enter with little sense of continuity at the end of the exhibit. The passage from this, which is an example of the potential of a work of art in the hands of an artist, to the history of how photography has evolved is nuanced and natural. Returning to the temporary exhibit, it is important to highlight the use of dim lighting, which creates a soft atmosphere. This induces concentration, prevents reflections on the glass and, above all, helps in this connection of colors, which is the stylistic signature of Witkin’s works.
The subtitle of the show, “The Master of his Masters,” refers to the fact that each image surprises the viewer, reminding one of paintings which are difficult to identify at first, as the subjects are deformed, gruesome, and expressing death. The sensation is a mix of the familiar and the repressed. This is accentuated by the way in which the photos are displayed: in most cases, they are displayed in an isometric way (that is, all placed at the same height, particularly that of a medium-height man), so that one may better appreciate the works. On some walls, they are hung like tapestries, as in the old picture galleries, suggesting a homey mood, which is opposite of the sensation of the works.
As for the order of the exposition, the choice was thematic: the first area is a sort of corridor, with an isometric display of photos that remind one of famous works like Raphael’s La Fornarina on one side, and a “tapestry” on the theme of myth on the other. Then, one continues into a more or less square space with still lifes of chopped body parts; a third zone presents larger photos with famous references, such as Botticelli’s Birth of Venus or Delacroix’s Raft of the Medusa. Finally, passing through a door, one enters another section that does not exactly replicate the paintings, but rather presents typologies, like triptychs, or subjects, like Saint Sebastian.
In conclusion, the exhibit proves interesting in that the display facilitates the understanding of a contemporary artist who works with the disturbing and arouses a sense of discomfort.
Joel Peter Witkin. Il maestro dei suoi maestri
di Silvia Zanella (Università di Firenze)
Fino al 24 giugno si tiene al MNAF, Museo Nazionale Alinari della Fotografia, la mostra Joel Peter Witkin, Il maestro dei suoi maestri, curata da Baudoin Lebon. Joel Peter Witkin, che ha incominciato la sua carriera durante la Seconda Guerra Mondiale documentando la vita quotidiana dell’esercito americano, lavora manualmente creando e stampando dei collage. I suoi temi sono all’insegna di valori che generalmente la società di oggi tende a rifiutare, come la deformità corporea, la morte come parte integrante della vita e il misticismo. Non sono temi semplici da presentare al pubblico, tuttavia il curatore vi è riuscito studiando un percorso espositivo che aiuta in questo avvicinamento.
La mostra è organizzata in modo estremamente logico, il che riflette e aiuta ad accostarsi all’opera dell’artista. Egli lo è a tutti gli effetti poiché nella maggior parte dei casi riprende dipinti famosi e li fa riperformare da modelli che hanno criteri di bellezza corporea opposti a quelli rinascimentali a cui siamo stati abituati. Per capire questo si viene aiutati da un percorso, creato da una serie di pannelli, che dividono lo spazio rettangolare dedicato alle esposizioni temporanee. Si entra in una sorta di corridoio e si è aggrediti da queste immagini perturbanti. Purtroppo il pannello con la presentazione della mostra (e un aiuto alla comprensione) è collocato sulla parete a fianco dell’entrata che risulta alle spalle del visitatore, il quale difficilmente lo vede. Lo incontra poi al termine del percorso, ma in inglese, con la sensazione che il curatore si sia dimenticato la traduzione in italiano.
Il percorso è caratterizzato da una grandissima logica che pervade ogni dettaglio. In primis i colori: le fotografie di Witkin sono quasi tutte in bianco e nero (stampe al bromuro d’argento) e l’allestimento rispecchia questa scelta, anzi la amplifica poiché i pannelli su cui sono appese sono bianchi, le cornici nere e i passepartout nuovamente bianchi. Inoltre il nero è il colore dominante di tutto il MNAF, a cui si accede senza soluzione di continuità al termine della mostra. Il passaggio da questa, che rappresenta un’esemplificazione delle potenzialità di un’arte nelle mani di un artista, alla storia di come si è potuti giungere a questi risultati, si rivela sfumato e naturale.
Tornando a parlare dell’esposizione temporanea, bisogna sottolineare l’uso di una luce soffusa che crea un’atmosfera ovattata e che induce alla concentrazione, evita i riflessi dei vetri e soprattutto aiuta il gioco di rimandi dei colori che è anche la cifra stilistica dell’opera di Witkin.
Il sottotitolo della mostra, “Il maestro dei suoi maestri”, si riferisce al fatto che ogni immagine ci sorprende ricordandoci dipinti celebri, i quali però risultano difficili da identificare dal momento che i soggetti sono deformati, macabri, esprimenti la morte. La sensazione è mista di familiarità e rifiuto. Questa è valorizzata dalla maniera in cui le fotografie sono esposte: nella maggioranza dei casi in modo isometrico (cioè tutte alla stessa altezza, quella di un uomo medio) così da poter entrare bene nell’opera, mentre su alcuni pannelli sono disposte ad “arazzo” come nelle antiche quadrerie, suggerendo un’atmosfera casalinga che è opposta alle sensazioni che le opere suscitano.
Riguardo all’ordine di esposizione, la scelta è stata tematica: la prima area, che è una sorta di corridoio, vede fronteggiarsi un allestimento isometrico con fotografie che rimandano a opere famose come Raffaello e la Fornarina e uno ad “arazzo” sul tema del mito; poi si prosegue in uno spazio più o meno quadrangolare con nature morte realizzate con parti del corpo tagliate; una terza zona presenta fotografie più grandi, con riferimenti famosi, come la Venere di Botticelli o la Zattera della Medusa di Delacroix. Infine, varcando una porta, si giunge in un’altra sezione della mostra che non cita propriamente dei quadri, ma delle tipologie, come il trittico, o soggetti, come San Sebastiano.
Per concludere, la mostra si rivela interessante poiché l’allestimento facilita l’avvicinamento a un artista contemporaneo che lavora col perturbante e solleticando sensazioni di disagio.